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29

Mar

Cinque obiettivi (più uno) per nutrire il Pianeta

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

La sicurezza alimentare non può attendere

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 29 marzo 2015

Come nutrire il pianeta: questo sarà il filo conduttore dell’Expo che si aprirà fra un mese a Milano. Non è quindi tempo perso cercare di capire come stanno le cose oggi e come cambieranno domani.

La prima domanda è se tutti si nutrono a sufficienza: la risposta è no. Più di ottocento milioni di persone, cioè oltre l’11% degli abitanti del pianeta, soffrono la fame. Gli obiettivi che i grandi della terra si erano proposti in passato non sono stati raggiunti, anche se alcuni paesi come il Brasile, l’Indonesia e la Bolivia hanno fatto grandi progressi in materia.

La produzione agricola deve quindi aumentare per dare il pane a tutti, ma deve anche aumentare per fare fronte ai mutamenti delle diete alimentari che accompagnano lo sviluppo economico. Il passaggio alle proteine cambia il mondo: una persona che si nutrisse solo di carne avrebbe bisogno di cinque volte la superficie agricola necessaria a nutrire una persona che vive esclusivamente di cereali.

Lo sviluppo rivoluziona la dieta: in Cina il consumo pro-capite di carne, che era di 20 kg. all’anno nel 1980, è arrivato a 54 kg. nel 2010 e continua a crescere.

Così avviene per i miliardi di persone che non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di benessere.

Tutti gli esperti concordano nel prevedere che, se non vi saranno drastici cambiamenti, la produzione di cibo non sarà in grado di seguire l’aumento della domanda perché la produttività cresce meno che in passato, perché i risultati più alla portata di mano sono stati già raggiunti mettendo a coltura le terre più fertili, perché gli investimenti nella ricerca in campo agricolo sono nettamente inferiori rispetto alle necessità e, infine, perché il grande processo di urbanizzazione priva l’agricoltura delle terre più fertili. Basta pensare che, prima della metà di questo secolo, il 70% dell’umanità vivrà nelle città. A questo si aggiunge il fatto che una crescente quantità di terreno fertile, in conseguenza di improvvidi sussidi pubblici, non viene dedicata alla produzione di cibo ma di biocarburanti. Non si tratta di sciocchezze perché il 40% della produzione di mais degli Stati Uniti, utilizzando una superficie agraria più grande di molti stati europei, non viene impiegata per riempire le bocche delle persone o degli animali ma finisce nei serbatoi delle automobili. Fa un certo effetto pensare che la quantità di cereali necessaria per produrre carburante per un solo rifornimento di un Suv (240kg di cereale) sarebbe sufficiente per nutrire un essere umano per un anno intero.

Negli ultimi due anni questo problema è meno sentito perché abbiamo avuto raccolti eccezionalmente buoni e perché la crisi economica ha compresso la domanda in molti paesi ma, dall’inizio del secolo, abbiamo già avuto due lunghi periodi di estrema scarsità di cibo, con improvvisi aumenti di prezzo delle derrate alimentari che hanno provocato tragiche conseguenze nei paesi più poveri e che, non solo nel periodo della primavera araba, hanno anche prodotto violente rivolte popolari.

In questo quadro di precarietà sul futuro, la sicurezza e la stabilità degli approvvigionamenti alimentari sono diventate obiettivi fondamentali non solo da parte dei paesi come la Cina e l’India ma anche di Corea e Arabia Saudita e di tutti i paesi che hanno scarsità di terra coltivabile rispetto al numero di abitanti.

Da qui nasce la politica di acquisti di terra negli unici due continenti dove sono ancora disponibili vaste superfici non coltivate, cioè in Africa e in America Latina.

A questa politica, che sta già causando tensioni e molte altre ne causerà in futuro, si aggiunge il fatto che il commercio mondiale delle derrate non è più in mano agli Stati Uniti e all’Europa ma a nuovi protagonisti come la Cina, India, Indonesia, Brasile, Canada e Australia.

Il grande magazzino delle scorte agricole mondiali non è oggi nelle pianure americane ma in Cina, nei cui silos, nel 2013, era depositato il 30% delle scorte mondiali di grano, il 40% del mais e il 42% del riso.

Conviene anche sapere che il maggiore esportatore di soia brasiliana è cinese e che oltre un terzo della produzione suinicola degli Usa è di proprietà cinese.

In questo quadro, nel quale la sicurezza alimentare è così importante, l’Italia deve porsi obiettivi precisi e rigorosi, anche se il suo rapporto fra popolazione e risorse agricole non è paragonabile a quello dell’India o della Cina e l’appartenenza all’Europa costituisce una potente garanzia.

  • Il primo obiettivo deve essere quello di sprecare meno: un terzo dei prodotti alimentari non entra nella nostra bocca ma va disperso o sprecato e finisce direttamente nei bidoni delle immondizie.
  • In secondo luogo bisogna produrre di più sporcando meno: in molte regioni del mondo l’agricoltura è responsabile di una grande parte dell’inquinamento delle falde acquifere.
  • Il terzo comandamento ci dice che dobbiamo produrre di più usando meno acqua: utilizzando sistemi di irrigazione più efficienti e varietà di sementi che resistono alla siccità e agli stress idrici.
  • Il quarto obiettivo deve essere quello di usare la terra più fertile per produrre cibo, lasciando all’energia gli scarti di produzione, i terreni marginali e i boschi cedui.
  • Per raggiungere l’obiettivo della sicurezza alimentare abbiamo però bisogno di un rafforzamento delle aziende agricole e, soprattutto, di moltiplicare le scarse risorse dedicate alla ricerca agraria nelle nostre università e nei nostri Istituti sperimentali. Vantiamo un passato glorioso nella ricerca scientifica in agricoltura. Le innovazioni nella genetica sono state una gloria del nostro paese: a Bologna per il grano, a Palermo per gli agrumi, nel nord-est per la vite e la frutta. La nuova ricerca genetica non passa più da noi: è ora di mettere seriamente in agenda questo problema.
  • Resta infine un’ultima raccomandazione: non rubiamo mai più un metro quadrato di terreno all’agricoltura. Abbiamo già devastato abbastanza il suolo italico. Abbiamo infinite zone già urbanizzate e completamente inutilizzate. La crisi le ha moltiplicate e qualsiasi auspicabile ripresa non avrà bisogno di quella terra. Lasciamola all’agricoltura. Dedichiamola al nostro futuro.

Expo 2015 – Intervento di Romano Prodi – La geopolitica del cibo from Romano Prodi on Vimeo.

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28

Mar

Più soldi alla ricerca sull’agricoltura: il futuro non è al sicuro da carestie

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Expo: Prodi, piu’ soldi a ricerca su agricoltura
La ripresa non ‘rubi’ altra terra

(ANSA) – FIRENZE, 28 MAR – “Bisogna portare risorse alla ricerca nelle nostre Universita’ e nei nostri istituti, la ricerca in agricoltura e’ cenerentola nel nostro sistema di ricerca, che gia’ e’ cenerentola nel sistema di ricerca mondiale”.
Lo ha detto Romano Prodi intervenendo a una iniziativa di Expo a Firenze.

“La ricerca genetica e’ stata costantemente una gloria del nostro Paese – ha aggiunto – adesso non siamo piu’ nel campo della ricerca di avanzamento agrario”. “Abbiamo gia’ devastato il suolo italico – ha concluso Prodi – abbiamo zona urbanizzate disordinate, qualsiasi sia la ripresa essa non avra’ bisogno di altra terra, lasciamola all’agricoltura”. GRS-Y2G/SPO 28-MAR-15 13:36

Expo 2015 – Intervento di Romano Prodi – La geopolitica del cibo from Romano Prodi on Vimeo.

Ogm: Prodi, serve precauzione ma non fermare ricerca

(ANSA) – FIRENZE, 28 MAR – “La scienza e’ scienza, bisogna avere la consapevolezza della sua importanza, bisogna usare il principio di precauzione, ma non si puo’ fermare la ricerca”. Lo ha detto Romano Prodi, rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano se il suo invito a investire di piu’ nella ricerca in agricoltura riguardasse anche gli Ogm. Prodi oggi e’ a Firenze per un incontro su Expo.

A chi gli chiedeva cosa pensasse del fatto che Expo sia sponsorizzato anche da grandi marchi internazionali dell’alimentazione: “Nel mondo c’e’ posto per tutti – ha risposto – non ci dobbiamo scandalizzare ne’ c’e’ da demonizzare. Io ho detto chiaramente che il problema del cibo non sono i prodotti di marca, ma esistono anche quelli. Il problema e’ che bisogna fornire all’umanita’ prima le cose con cui vivere, poi i prodotti di marca”. GRS-MU 28-MAR-15 13:40

Agricoltura: Prodi, futuro non e’ al sicuro da carestie

(ANSA) – FIRENZE, 28 MAR – “Siccome negli ultimi due anni abbiamo avuto raccolti buoni e abbiamo avuto un aumento della domanda meno forte, pensiamo che il futuro sia al sicuro da carestie. Non e’ vero“. Lo ha detto Romano Prodi a margine del suo intervento a una iniziativa di Expo a Firenze.

“Nei primi quindici anni di questo secolo abbiamo avuto due periodi di tensione dei prezzi e nell’agricoltura – ha aggiunto – Questi possono ritornare e ci sono elementi che fanno pensare che siano probabili in futuro”. MU-GRS 28-MAR-15 13:45

Alimentazione: Prodi, Cina piu’ grande magazzino cereali al mondo

(AGI) – Firenze, 28 mar. – “Scriviamo pagine e pagine della fusione fra Kraft e Heinz, e non scriviamo che il piu’ grande magazzino di cereali del mondo e’ diventata la Cina”. Cosi’ l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, intervenendo all’evento ‘Italia 2015: il Paese nell’anno dell’Expo’.

“Sprecare di meno, produrre di piu’ con meno inquinamento, produrre di piu’ con meno acqua”. Bisogna fare “uno sforzo enorme, ha concluso Prodi – altrimenti le guerre future saranno per cibo e acqua“.

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8

Mar

Io mediatore in Libia? Ipotesi superata. Un intervento provocherà un altro Iraq

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Io mediatore in Libia? Un’ipotesi superata. Un intervento militare provocherà un altro Iraq

Intervista di Paolo Valentini a Romano Prodi sul Corriere Della Sera dell’ 8 marzo 2015

Presidente Prodi, partiamo da lontano e proviamo a ricostruire la crisi libica.

“La crisi della Libia l’ho vissuta dall’inizio. Quando ero alla Commissione Europea avevamo capito,dopo analisi molto approfondite, che il colonnello Gheddafi era stanco di fare il trouble maker, di creare tensione nella regione sub-sahariana. Con una battuta, il suo sogno era di farsi re dell’Africa, assumere la leadership di una fragile Unione africana. Lo invitammo allora a Bruxelles e fu un po’ il suo sdoganamento, all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone. Salvo, un mese dopo, cominciare la corsa a incontrarlo, perché tutti, dagli americani agli inglesi, avevano qualcosa da vendergli. Da allora la Libia ha assunto un ruolo molto particolare. Gheddafi ha cercato di riparare, pagando, per le vittime dei suoi atti di terrorismo, in tal modo ammettendo le proprie responsabilità. E’ diventato punto di riferimento per i Paesi vicini, ha sostenuto il peso più forte del bilancio dell’Unione africana (quasi un quarto) rimanendo però un dittatore durissimo all’interno, perché solo col pugno di ferro teneva a freno le diverse tribù e il composito mosaico politico del suo Paese. Altra particolarità, aveva un esercito formato in buona parte da uomini del deserto, ben pagati, che contribuivano a mantenere un equilibrio economico nel sub-Sahara. La guerra ha frantumato questi equilibri. Gheddafi è morto, i mercenari privi di paga si sono presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro caotico, è caduto l’intervento militare della Nato, privo però di ogni strategia politica, di ogni idea sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora, ci sono state solo rotture progressive, fino ai due governi contrapposti di Tobruk e Tripoli, con la complicazione dell’Isis nell’ultimo anno, probabilmente non così forte numericamente, ma potentissimo quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora ci sono continui rivolgimenti di fronte, un incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per la natura frammentata dello scontro e per il semplice fatto che avrebbe l’effetto di unire tutti contro l’invasore, quindi difficoltà militari e conseguenze politiche”.

In questo scenario, la scorsa estate è partita la mediazione dell’Onu. Perché si è rivelata debole e insufficiente? Cosa avremmo potuto fare di diverso?

“L’handicap della mediazione è stato in primo luogo il ritardo con cui è partita. Personalmente avevo detto da tempo ai vari ministri che si sono succeduti alla Farnesina che avremmo dovuto forzare le parti. Ci si è illusi che il governo legittimo, emerso dalle elezioni e che non voleva nessun altro interlocutore al tavolo, fosse sufficiente. Quando ci si è accorti che non era così, la situazione si era già troppo deteriorata. Non so se la mediazione dell’Onu è stata tardiva per colpa dell’opposizione di alcuni Paesi. Ma tant’è: di fronte a due governi con due eserciti, più le varie milizie armate, più l’Isis, il compito è diventato proibitivo. Paradossalmente, a poter dare una mano è la drammaticità di una situazione in cui tutti si sentono perdenti”.

E l’Europa?

“Non c’è stata. Non ha avuto una politica. Ma non solo rispetto alla Libia. E’ stata divisa, sempre. Sulla specifica vicenda libica hanno probabilmente pesato il ruolo particolare della Francia soprattutto di fronte all’opportuno smarcamento della Germania, che si è chiamata fuori dall’intervento. Le differenze erano evidenti. Devo aggiungere un’altra notazione: per esperienza personale, tutte le volte che era in ballo il Mediterraneo, era difficile attirare l’attenzione dei Paesi del Nord. Hanno sempre bocciato ogni proposta. Quando abbiamo fatto l’allargamento, l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, mi sono sentito rimproverare da algerini, marocchini, tunisini, egiziani, libici: voi guardate solo a Nord e non guardate mai a noi. La mia risposta era: c’è un’emergenza storica, è caduta la Cortina di Ferro e noi abbiamo il dovere di una risposta, ma c’è un impegno di volgerla anche a Sud. Bene, quell’impegno non è mai stato onorato. Proposi la Banca del Mediterraneo, con consiglio d’amministrazione paritario tra Nord e Sud, mi dissero che avevamo già la Bei. Così per le Università miste: pensavo a sedi doppie, Catania e Tunisi per esempio, due anni di frequenza in una e due anni nell’altra, professori del Nord e del Sud, materie scientifiche per cominciare, così da non avere problemi teologici. Nulla. Oggi ne paghiamo il prezzo”.

Arriviamo a Rabat, storia di queste ore. Per la prima volta le fazioni stanno fisicamente nello stesso edificio, non si parlano ancora direttamente ma comunicano. Quali saranno i passi successivi?

“Spero che la forza della disperazione faccia il miracolo: se sono andati tutti a Rabat è perché sono disperati. L’Isis è diventato un tragico fattore unificante nella politica mondiale. E’ la prima volta che tutte le grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa politica. Cina, Russia, Europa, Stati Uniti. Mi auguro che a Rabat i grandi Paesi, quelli che hanno influenza, siano finalmente d’accordo nell’utilizzare ognuno le proprie leve e i propri canali. Certo molto dipende anche da Egitto e Algeria. E resta il punto interrogativo sulle politiche di Paesi come Qatar, Turchia, quelle che io chiamo “politiche individualmente anomale”. Ma se le grandi potenze agiscono in modo deciso e unito, le anomalie si possono ridurre e forse le tre stanze di Rabat potranno diventare una”.

Quale mano può dare specificamente la Russia in Libia?

“Io sono convinto che proprio la paura dell’Isis possa fare la differenza. La Russia in Africa non svolge oggi un vero ruolo. Ma se mettiamo tutto sul tavolo, dall’Ucraina alla Libia, alla Siria, allora il ruolo della Russia può essere decisivo. In fondo ci manca il grande mediatore, che avevamo sperato fosse Obama. Specificamente, Mosca in Libia può solo aggregarsi agli altri. Ma se abbiamo bisogno di un compromesso globale, la Russia con la sua forza, può essere cruciale per creare condizioni generali in grado di produrre soluzioni positive anche in Libia. Vede di solito le grandi potenze hanno interessi divergenti e si cercano mediazioni difficili. Questa volta gli interessi sono convergenti”.

L’ipotesi del suo ruolo come eventuale mediatore è ancora attuale? Se ne parla già dal 2011.

“Mi fece molto piacere, nel 2011, la lettera di 25 capi di Stato e di governo africani, che indicavano il mio nome per la Libia e la pronta e positiva risposta di Ban Ki Moon, il quale promise di consultare i Paesi rilevanti. Il fatto che poi non se ne fece nulla significa che qualcuno di questi Paesi diede parere contrario. Mi è dispiaciuto, ma non mi ha sorpreso. Ricordo che Berlusconi era il premier italiano e Sarkozy il presidente francese. Poi, nell’estate del 2014 ci sono state nuove richieste libiche, queste dirette al governo italiano, per una mia mediazione. Ma anche in questo caso non c’è stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo Chigi lo scorso 15 dicembre, ma non si è fatto cenno a un mio personale ruolo nella vicenda libica. Solo una mia insistenza sulla necessità di far sedere tutti attorno allo stesso tavolo. L’unico discorso personale ha riguardato l’ipotesi avanzata da Renzi di una mia candidatura a segretario generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki Moon, non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte supporto politico di cui godono altri candidati”.

Si riferisce alla cancelliera Merkel? La voce corre molto in Germania.

“l’ho raccolta anche io negli stessi termini. Tornando alla sua domanda sulla mia mediazione, volevo concludere che mi sembra un’ipotesi superata dai fatti”.

Ma in Libia sarà comunque necessaria una presenza militare di garanzia?

“Visto che lei usa il termine garanzia, cioè una presenza accettata da tutti, dico ovviamente di si. Come in Libano. Lo feci io, in due giorni. Ed è andata benissimo. Sono invece contrario all’azione militare, ma non perché sia pacifista. So benissimo che in certi momenti bisogna esser pronti anche a menare le mani. Ma in questo caso un’azione militare non avrebbe alcun senso. Rischieremmo un Iraq 2”.

Cambiamo argomento e parliamo dell’Ucraina. E’ ottimista che i nuovi accordi di Minsk possano essere rispettati?

“Mi sembra stia andando meglio del primo Minsk. Penso che siamo arrivati a un punto nel quale nessuno ha interesse a rompere il filo della diplomazia”.

Lei si è detto rattristato dall’assenza dell’unione europea a Minsk.

“Molto”.

Di chi è la responsabilità?

“Dell’Europa, dei rapporti di forza esistenti nella Ue”.

Ma se l’Alto Rappresentante della poltica estera si fosse chiamato Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato escluso dal vertice di Minsk?

“Domanda di difficile risposta. E’ chiaro che qualcuno con forza politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk poteva avere più possibilità di sedere almeno su uno strapuntino. E’ ben noto che la politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha certamente tempo e possibilità di costruirli”.

Torniamo all’Ucraina, lei ha fatto alcune proposte interessanti sulla gestione comune del trasporto e della distribuzione del gas.

“Ne ho parlato con Putin, Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Quando esistono tensioni così gravi, occorre individuare interessi comuni che le diminuiscano. Qual è l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza delle forniture di gas. Ora che Mosca, per ovvie ragioni di convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una società, tre quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirà a gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è obbligata a starci”.

Sembra la Ceca nel Dopoguerra, che mise fine alla rivalità tra Francia e Germania. Il gas come il carbone e l’acciaio?

“Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri obiettivi. Mi sembra che le prime reazioni siano positive”.

Lei ha definito le sanzioni un “suicidio collettivo” dell’Europa. Ma c’era una strada diversa dalle sanzioni dopo l’annessione della Crimea?

“La Crimea è stato una decisione difficilmente digeribile, ma va inserita nella storia. Dopo è stato tutto molto più difficile. La strada della pacificazione dipende dalla assoluta garanzia che la Russia rispetti l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina. Io penso che la soluzione sia quella altoatesina, una forte autonomia e decentramento per le regioni russofone. Per questo è così importante che la tregua sia duratura e le armi cessino di sparare. Ricordo che le divisioni interne al governo dell’Ucraina sono un altro fattore di complicazione. E’ il momento di un guizzo di intelligenza per le grandi potenze”.

Trova opportuna la visita di Renzi a Mosca?

“Certo. Quando qualcuno rimprovera all’Italia una posizione eccessivamente morbida sulle sanzioni alla Russia, occorre tener presente che ci vuole una regola generale sull’equa distribuzione dei sacrifici. Non è quanto sta succedendo. Le esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Certo, partono da parametri diversi, ma il danno subito dall’economia USA è pari a zero. Se un Paese agisce diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non è che possiamo chiamarla viltà”.

L’Ucraina pone il tema dei rapporti con Mosca. Lei ha più volte detto che dopo la fine della guerra fredda la Russia e l’Europa hanno sprecato la grande opportunità di costruire un ordineglobale cooperativo. Di chi sono le responsabilità?

“La questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della Russia. Diversa era stata la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel 2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata un’ossessione per i russi. Tutto era cominciato con la guerra in Iraq. Me lo disse Putin, proprio nell’immediata vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la guerra in Iraq, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e l’Ucraina”. Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono il presidente della Commissione europea, non ho competenze di politica estera. Proprio per questo, mi rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Forse sarebbe bastato che lui, Schroeder, Chirac e il presidente cinese facessero una foto insieme e dicessero che non bisognava invadere l’Iraq. Non ho mai capito perché i cinesi non si siano mossi allora. Forse non si fidavano del tutto degli europei. O forse erano ben contenti che alla fine gli Stati Uniti si infilassero nel pantano iracheno. Ma sono solo ipotesi. Ricordo però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una ferita che non si è ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi comuni per provare a farlo”.

Ma come trovare l’equilibrio tra la difesa degli interessi e la salvaguardia dei valori nei rapporti con Mosca? Possiamo sorvolare sull’autoritarismo e sulle violazioni del diritto internazionale da parte di Putin?

“Ho sempre pensato che una politica di apertura aiuti la democrazia. Mercato aperto e scambi culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e diritti umani. E’ la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti. Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le nostre paure. Ma credo che solo una democrazia dialogante possa contaminare positivamente i sistemi autoritari. Mentre una democrazia che si vuole maestra, con la bacchetta e magari con il fucile e basta, rischia di essere controproducente. D’altra parte dialogare con San Francesco è facile. Il problema è parlare con il lupo”.

Lei crede che nonostante l’ondata di nazionalismo interno che domina la conversazione nazionale in Russia, siamo ancora in grado di recuperare un forte rapporto con Mosca?

“I passi in avanti bisogna farli in due. Anche la Russia deve uscire dal buco, per questo sono ottimista. Mosca è nell’angolo, l’Ucraina è nell’angolo, siamo tutti pieni di problemi. L’economia russa rischia di perdere 5 punti di Pil. Oggi il nazionalismo aiuta Putin, ma il digiuno colpisce nel lungo periodo”.

Ma questo ci costringerebbe a una forzatura nel rapporto con gli Stati Uniti?

“Obama queste cose le capisce”.

Sul nucleare iraniano siamo a una svolta. Crede importante arrivare a un accordo?

“Sono perfettamente d’accordo con Emma Bonino sull’utilità di eliminare questo fattore di tensione. Sono stato spesso a Teheran in questi anni. Ai tempi di Kathami, da presidente del Consiglio, sono stato l’unico leader occidentale a fargli visita. Ho fatto lezioni all’Università. L’Iran è un grande Paese. Per gli americani è un passo difficile e lo capisco. Ma sono stati loro stessi, con le loro politiche, ad aver reso possibile il ritorno e la continuità territoriale della grande area sciita. Far fronte comune contro il terrorismo dell’Isis è una priorità per tutti. Quindi un compromesso con il mondo sciita è indispensabile”.

Considera ancora uno scenario realistico l’uscita della Grecia dall’euro?

“No, anche se la Grecia ha tirato molto la corda. Ho percepito una grande irritazione a Bruxelles e in alcuni Paesi membri. Atene sta sprecando l’effetto novità. E questo a causa della contraddizione tra le promesse elettorali e le necessità successive. Hanno promesso tutto e subito. Mi preoccupa la forte tensione psicologica nei confronti del governo greco. Ha messo in difficoltà i mediatori e questo non bisognerebbe mai farlo”.”.

Qual è il pericolo più forte che incombe oggi sull’Europa?

“L’assenza di leadership che porta all’irrilevanza. Voglio dire, non è che i rapporti con Helmut Kohl fossero tutti rose e fiori. Non è che mi piacesse quando diceva continuamente che dovevamo fare i compiti a casa. Ma per fare quei compiti, mi lasciava almeno la penna e i fogli. Oggi non è così. Il problema europeo è che i rapporti di forza sono talmente cambiati, che si pensa sempre meno a mediazioni. Dieci anni fa, arrivai a Bruxelles convinto di trovare un mondo franco-tedesco. Certo erano potenti, ma mi accorsi subito che i funzionari più forti erano gli inglesi. Poi si è indebolita la Francia, anche per le liti interne. La Gran Bretagna ha avuto la stupida idea del referendum, condannandosi da sola all’irrilevanza. A quel punto tutti i Paesi si sono rifugiati sotto l’ombrello tedesco, quindi tutte le politiche economiche alternative hanno perso rilevanza. Arrivati qui o c’è una Germania in grado di capire che non c’è leadership senza responsabilità, oppure è difficile che l’Europa si possa alzare. Non è che gli americani nel dopoguerra abbiano fatto il piano Marshall perché erano filantropi, ma perché avevano bisogno di alleati forti. Ci vuole un direttore d’orchestra che non abbiamo. Io ho paura che un domani i tedeschi pensino di potercela fare da soli, ma non è così. Certo oggi la loro economia va fortissima, a Pechino circolano tante automobili tedesche. Ma non ho cambiato idea: il mondo globalizzato ha bisogno di una forza più robusta”.

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16

Feb

No alla guerra. Urgente una mediazione guidata dall’ONU

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Libia, Prodi: “No alla guerra, nulla avvenga senza l’Onu”. “Prima di ricorrere alla forza, bisogna esperire ogni tentativo di mediazione. Il problema è che all’Onu oggi manca una guida”. L’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi interviene così sull’avanzata Isis in Libia

Intervista di Enrica Agostini a Romano Prodi su Rai News 24 del 16 febbraio 2015

“La questione libica è il prodotto della mancanza di dialogo tra popoli. Molti protagonisti, come gli esuli libici a Il Cairo, non sono mai stati sentiti”. Queste le parole dell’ex premier Romano Prodi sull’avanzata dell’Isis in Libia e sugli scenari di intervento da parte della comunità internazionale. L’ex presidente della Commissione Ue dice subito “no alla guerra”, a meno che non sia esperito “ogni tentativo di dialogo”. “Quando si vuole agire in un Paese, bisogna conoscere tutta la complessità della situzione e le conseguenze delle azioni”, scandisce Prodi, nell’intervista di Enrica Agostini di Rai News 24.

Prodi: “No alla guerra in Libia, nulla avvenga senza l’Onu” – Canale Romano Prodi su Vimeo.

“Non so perché sulla richiesta del governo libico di essere io il mediatore con la comunità internazionale, non sia stato effettivamente coinvolto“, chiarisce l’ex presidente della Commissione Ue. “Io sono sempre stato a disposizione del mio Paese e della pace“, aggiunge Prodi.

“Nulla si può fare senza l’Onu, ma alle Nazioni Unite manca una guida”

E sugli scenari della situazione in Libia, l’ex premier avverte: “Nulla si può fare senza l’Onu, ma l’Onu ha poche armi, e il problema di oggi è che nelle Nazioni Unite nessuna Potenza ha un ruolo catalizzatore, di guida”. “In questo caso, però – prosegue il fondatore dell’Ulivo – siamo nella situazione ideale per l’intervento delle Nazioni Unite, perché tutte le grandi potenze hanno paura dell’Isis”.

Ucraina, “Gli accordi questa volta possono essere rispettati”

Sulla tregua in Ucraina, Romano Prodi definsce “efficaci” gli accordi di Minsk e ritiene che le parti in gioco, questa volta “possano rispettarli”. E la questione ucraina viene inquadrata dall’ex presidente Ue nel processo di “definizione delle zone cuscinetto tra le grandi potenze”.

“Tsipras è un problema che può diventare un’occasione”

“Tsipras è un problema che può diventare un’occasione per l’Europa. Se si andrà verso la mediazione, si allungheranno i tempi, ma i problemi potrebbero restare. Ai tempi dell’unificazione, la Germania fu aiutata e tutti ne beneficiammo”. Commenta così, Romano Prodi, la mediazione sul debito greco tra Atene e la Troika.

“L’approvazione delle riforme a maggioranza non mi convince”

“Non mi piace l’approvazione delle riforme costituzionali con l’Aula mezza Vuota”, afferma Romano Prodi, sulla recente approvazione in prima lettura da parte della Camera, del Ddl Boschi. “Io concepisco la democrazia come alternanza. Il Partito della Nazione fa alternanza con se stesso? Potrebbe essere una contraddizione. Posso accettare il partito della Nazione come larga rappresentanza di interessi”. Questo il suo giudizio, sulla “centralità” del Pd nello scacchiere politico e sul progetto di Partito della Nazione.

Sulla dialettica politica stimolata dal premier Matteo Renzi, Prodi dice: “L’accumulo di nemici a livello nazionale e internazionale alla lunga può non pagare“.

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15

Feb

L’ISIS alle porte per colpa dell’Occidente. Era tutto prevedibile dal 2011

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Libia, Prodi: “L’Isis alle porte? La colpa è dell’Occidente. Situazione prevedibile”

Intervista di Giampiero Calapà a Romano Prodi su Il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2015

L’ex premier torna sul conflitto del 2011: “Dopo Gheddafi bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo. C’erano interessi economici. Ora occorre far sì che tutti gli interlocutori si confrontino e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale”

“Una catastrofe per colpa nostra, dell’Occidente“, ripete Prodi. Altro che Iraq, Siria e Kobane. Le bandiere nere del Califfato islamico sventolano a trecento chilometri dalle coste italiane di Lampedusa, Paolo Gentiloni invoca l’intervento armato, perché “la situazione si sta deteriorando”, e viene citato dalla radio dell’Isis come “ministro nemico dell’Italia crociata”. Romano Prodi, ex premier, ex presidente della Commissione europea, già inviato speciale dell’Onu per il Sahel e padre della Fondazione per la collaborazione dei popoli, conosce bene il dossier Libia: “Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto, davvero non lo era neppure nel 2011”.

Presidente, adesso che cosa bisogna fare?

Cosa bisogna fare non lo so. Oggi non lo so più, mi creda. So bene quanto si sarebbe dovuto fare dopo la caduta di Gheddafi. Bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo.

Cosa intende?

Si è preferito credere che un primo ministro (il primo nel 2011 fu Mahmud Jibril al-Warfali, ndr) e un parlamento legittimi potessero risolvere le cose da soli, facendo finta di non vedere che la situazione era compromessa in partenza, che alcune fazioni armate avrebbero finito per esser lasciate a loro stesse. Ma il primo ministro non ha mai avuto un potere reale sul territorio.

Come siamo arrivati a tutto questo?

Si tratta di un errore nostro. Delle potenze occidentali. La guerra in Libia del 2011 fu voluta dai francesi per scopi che non lo so… certamente accanto al desiderio di ristabilire i diritti umani c’erano anche interessi economici, diciamo così.

L’Italia?

L’Italia ha addirittura pagato per fare una guerra contro i propri interessi.

Credo che il suo acerrimo nemico di sempre, Silvio Berlusconi, sia d’accordo con lei su questo punto.

Ma sta scherzando? Berlusconi si è fatto trascinare dalla Francia ed è entrato in guerra.

Eppure Berlusconi si professava grande amico del leader libico…

Il presidente del Consiglio in carica era Silvio Berlusconi. Adesso la Libia è caduta nell’anarchia e nel caos più assoluti. La situazione è davvero di una gravità eccezionale, non possiamo fare finta che le nostre azioni non abbiano inciso nel produrre tutto questo.

Ravvisa un pericolo di sicurezza per l’Italia?

La Libia è dietro l’angolo. È un Paese ridotto a essere senza alcuna disciplina, senza controllo, senza alcuna forma di statualità, dove i commercianti di uomini imperversano buttando a mare i disperati che sognano una vita migliore in Europa.

Teme che i terroristi possano arrivare anche sui barconi, come ha detto qualcuno?

I terroristi sono organizzati, altro che barconi.

Ritorno alla prima domanda. Le cancellerie occidentali cosa dovrebbero fare in questo momento secondo lei?

Occorre senza dubbio uno sforzo per produrre un minimo risultato nel tentativo di fare sedere tutti gli interlocutori al tavolo e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale.

Pensa che anche gli uomini incappucciati dell’Isis debbano essere fatti sedere al tavolo dei negoziati?

A questa domanda non posso dare una risposta perché è relativa a un presente di cui non voglio parlare.

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2

Feb

Per fermare l’ ISIS un fronte comune e una leadership forte

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: di fronte a Isis manca una leadership forte
“Bisogna mettere davanti a tutto gli interessi comuni”

Bologna, 2 feb. (askanews) – Nell’affrontare l’Isis ci sono troppe chiusure nazionale, non si trova una leadership forte che sappia mettere davanti a tutto gli “interessi comuni”. Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, alla presentazione dell’ultimo libro di Antonio Ferrari “Altalena. Voci senza filtro” a Bologna.

Del terrorismo e, in particolare, dell’Isis “hanno paura tutti: cinesi, russi, americani, europei – ha spiegato Prodi -. Tutte le tensioni che abbiamo in questo momento non vedono nessun leader che sappia mettere insieme sotto questo aspetto gli interessi comuni”.

Durante il dibattito, Prodi ha ricordato diversi episodi vissuti direttamente quando era alla guida della Commissione europea e nei suoi viaggi come presidente del gruppo di lavoro Onu-Unione africana sulle missioni di peacekeeping in Africa, durante i quali ha appunto evidenziato la difficoltà a fare un fronte comune per affrontare il terrorismo. “Di fronte al terrorismo internazionale – ha aggiunto – se non si rompe questa chiusura nazionale non ce la caviamo. Se ci fosse una leadership forte che cuce gli interessi comuni l’Isis sarebbe calmato”.

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13

Jan

Siamo tutti sotto attacco. Rispondere uniti per difendere la tolleranza e la libertà di espressione

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: «L’Is? È frutto della guerra»

Intervista di Arturo Celletti a Romano Prodi su Avvenire del 13 gennaio 2015

Dopo l’emozione, l’impegno corale. Della Ue. Del mondo. Romano Prodi ragiona a voce bassa. «Il terrorismo terrorizza tutti, le tragedie di Charlie Hebdo e del mercato kosher hanno fatto capire che bisogna voltare pagina. Servono azioni politiche, serve un confronto largo. Puntando su Paesi come l’Egitto e la Turchia che ultimamente ha alternato però passi avanti e passi indietro. Ma anche aprendo un confronto con leader discussi come quelli di Iran e di Siria. Se non si allacciano rapporti nuovi è difficile che la tensione possa diminuire. Che il terrorismo possa essere fronteggiato con incisività». L’ex presidente della Commissione Ue riflette su questo mondo lacerato dalle tensioni e dai conflitti. E li mette in fila proprio come papa Francesco. Parla di Medio Oriente, di Libia, di Nigeria. Ma anche di Parigi e di terrorismo. Lo fa con parole nette. Provando a scuotere la comunità internazionale. «Non si possono più usare questi Paesi come una palestra per misurare la propria influenza. Non ce lo possiamo più permettere. Ora le grandi potenze devono affrontare insieme l’emergenza». Serve dialogo politico e anche un confronto tra le grandi religioni monoteiste. Per fermare il terrorismo e costruire la pace. Prodi riflette sul recente discorso del presidente egiziano al-Sisi. Un discorso «rivoluzionario» pronunciato davanti agli imam. «Per chiedere una svolta, un nuovo pluralismo religioso, un nuovo patto tra cristiani e musulmani uniti nel costruire insieme il nuovo».

Professore, è questo l’obiettivo?

La lotta al terrorismo si fa con un dialogo accompagnato da una politica di aiuti, con rapporti economici e politici quotidiani. Non si vince con azioni militari. L’opzione bellica non ha avuto e non ha mai senso. Non c’è un caso, un solo caso, dove abbia portato risultati. È stato così in Afghanistan e in Iraq. E sarebbe così in Libia: l’emergenza libica deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze libiche a sedersi a un tavolo allargato. E questa offensiva diplomatica deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni e favorita dall’Europa e dall’Onu.

Perché l’opzione bellica non funziona?

Perché il vero problema sono le contraddizioni interne che scuotono i singoli Paesi. I contrasti interni. Le lotte interne. Da un solo Iraq di ieri, oggi ne abbiamo tre. In guerra tra di loro. Ecco il risultato di anni di guerra. C’è un Iraq sciita, uno curdo e un Iraq califfato. E invece serviva una pacificazione interna…

L’Is è frutto della guerra?

Sì, l’Is è frutto della guerra. Una guerra che ha aumentato tensioni che già c’erano. Che le ha moltiplicate. E che ha identificato colui che veniva dall’esterno come il nemico totale: il nemico politico, il nemico religioso, il nemico con la N maiuscola. Ecco il frutto della guerra.

E ora anche la Libia rischia di diventare una polveriera?

La Libia è già una polveriera.

Perché questa terribile ondata di immigrazione da Tripoli?

Perché in Libia non c’è uno Stato e non ci si può mettere d’accordo con nessuno. E poi perché l’Europa è disattenta. Gli immigrati vanno fermati quando partono, quando arrivano non possiamo farci più nulla. Quando c’è un dramma politico sulla terraferma si può rispondere, si può alzare un muro, si possono immaginare azioni; ma quando sono in mare che si fa? Un confine di mare non si ferma. Quando sono in acqua si possono solo accogliere.

E allora quale la possibile soluzione?

Insisto: accordi larghi, dialogo. Perché o si trova un accordo o il dramma diventerà ancora più grande. Ancora più drammatico. Parlavo con il presidente del Niger. Mi spiegava che la loro popolazione raddoppierà nei prossimi 19 anni. E mi avvertiva: ‘O si cambia tutto o verranno da voi‘. Quando hanno fame partono, il problema è darsi da fare per immaginare soluzioni al problema fame.

Pare una sfida complicatissima…

Ma non è impossibile. In alcuni Paesi africani si registra un periodo economico non cattivo. Si parte da zero, ma si comincia a vedere qualcosa che fa sperare. In molte realtà non saremo lontani da un 5 per cento di sviluppo ma tutti dobbiamo fare la nostra parte.

Esiste un legame tra immigrazione e terrorismo?

L’immigrazione ha due ragioni. C’è chi fugge per salvare la vita da zone di guerra. Penso all’Eritrea, alla Somalia, alla Siria, all’Iraq. E chi fugge da zone di fame come la Mauritania, il Mali, il Ciad, il Senegal, la Nigeria. Il terrorismo non c’entra. Certo i terroristi si possono infiltrare tra tanti disperati, ma qui tocca ancora all’Europa. Per un’intelligence europea ci vorrà tempo, ma serve subito un lavoro di prevenzione coordinato. Servono scambi di informazioni tra i servizi di sicurezza di Paesi diversi. Servono subito misure.

Qualcuno dice ‘chiudiamo le frontiere’…

E che facciamo? Chiudiamo l’Europa? Siamo in balia del mondo con un’Europa debole, proviamo a immaginare senza Europa dove potremmo andare a finire… Rivedere Schengen sarebbe una assoluta sciocchezza. La Ue non deve chiudersi, deve mostrare generosità. Finora non l’ha fatto. Ha lasciato l’Italia sola e questo non va e non può andare. Noi confiniamo con le aree più tragiche, se arrivano in 200mila li teniamo tutti qui? Anche la politica dell’assorbimento e dei rimpatri deve essere condivisa. È vero, nella Ue non c’è voglia di condividere, ma noi abbiamo il dovere e l’esigenza di insistere.

Torniamo a Parigi. Al mondo scosso. Che sta succedendo?

In queste ore si è fatta largo una nuova consapevolezza. Forte. Contagiosa. C’è un attentato ai principi più profondi. E c’è la necessità di una risposta, urgente e inevitabile, di straordinaria unità. A Parigi era chiaro: siamo tutti minacciati, tutti alla stessa maniera sotto attacco. Una minaccia che ci prende tutti e tocca principi fondamentali come la tolleranza, la libertà di espressione, il rispetto.

C’è Parigi, ma c’è anche il dramma della Nigeria e il terrore figlio dei crimini di Boko Haram.

La Nigeria è il luogo dove si commettono le efferatezze più terribili al mondo. Anche in termini quantitativi. Come nel passato in Ruanda. Efferatezze enormi, tragiche. Una tragedia immane, ma la drammaticità non viene percepita perché è là, perché è in Africa. Come con ebola. Quando si pensava che poteva toccare noi prendeva intere pagine dei giornali, oggi si è tranquilli perché riguarda solo loro… Non va bene, ma la comunità internazionale è ben felice che il problema resti circoscritto all’interno della Nigeria. E la reazione comune è dire ‘se la cavino loro’.
Il Papa parla anche di Italia e ci invita a non cedere alla tentazione dello scontro.

Siamo dilaniati come lo sono altri Paesi.

La nostra Lega è identica al Front national di Marine Le Pen. C’è qualcosa di drammatico nelle loro mosse. Ma anche di tristemente comico: gli antieuropesti fanno i raduni collegiali in Europa per affermare il loro antieuropeismo. Tutte le divisioni fanno il gioco dell’integralismo.

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11

Jan

Quando il terrorismo si fa Stato, diventa per tutti il nemico da vincere. Prendiamo esempio dall’Egitto

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Islam e Occidente: lo strappo dell’Egitto può pacificare il Mondo

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 gennaio 2015

La profonda e sentita partecipazione al lutto per le vittime della tragedia di Parigi deve essere accompagnata da un’altrettanto profonda riflessione sulle sue conseguenze politiche e su quanto si può fare per evitare che questi atti criminosi ci accompagnino in un futuro senza fine. Ogni riflessione deve naturalmente partire dalla necessità di mettere in atto tutti i mezzi di intelligence e prevenzione e tutte le misure di controllo e repressione contro coloro che operano ai limiti della legalità e predicano la violenza.

Sappiamo tuttavia che le società moderne, ed in particolare le società libere e democratiche, sono per definizione fragili e sempre vulnerabili di fronte alle azioni criminose.

La lotta contro il terrorismo deve essere quindi accompagnata da una strategia politica che lo isoli e lo indebolisca.

Per noi europei il primo passo da compiere è quello di trasformare le strategie nazionali, che in questo campo si mantengono pervicacemente tali, in una politica comune. Avrei desiderato che questa volontà si manifestasse subito, chiamando tutti i cittadini europei a una giornata di lutto espressa in modo corale in tutta l’Unione e mi sono permesso di presentare questa proposta al presidente della Commissione Europea. Mi sono tuttavia ancora una volta arreso di fronte al fatto che l’attuale solidarietà europea è troppo fragile per potersi tradurre in una pronta decisione anche riguardo ad avvenimenti che pure evocano spontaneamente la nostra più profonda partecipazione.

Non sarà quindi facile elaborare una politica comune: tuttavia alcuni eventi imprevisti possono indicarci almeno la direzione dei primi passi da percorrere.

La nuova prospettiva è stata aperta da un importante e imprevisto discorso del presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, alla vigilia della strage di Parigi.

Di fronte alle massime autorità religiose dell’università’ di Al Azhar, che è il centro più importante del pensiero teologico musulmano, il presidente egiziano si è esposto in un discorso che, per contenuto e peso politico, non ha precedenti nel mondo islamico, un discorso in cui ha esortato gli Iman ad interpretare la parola del Profeta non con criteri immutabili, ma in coerenza con le necessità dei tempi e le esigenze di una pacifica convivenza di tutta l’umanità.

“È inconcepibile che il pensiero che noi riteniamo più sacro abbia come conseguenza che l’intero” “mondo islamico sia fonte di pericoli, assassinii e distruzioni in tutto il mondo.” Queste parole, se seguite da una coerente azione, sono di per se stesse una rivoluzione, ma Al-Sisi ha proseguito ricordando a tutti i presenti che ” questo pensiero ( pensiero e non religione ) che abbiamo sacralizzato in questi anni sta antagonizzando l’intero mondo” mentre è inconcepibile che “un miliardo e seicento milioni di musulmani vogliano uccidere gli altri sette miliardi di abitanti della terra”.

Rivolgendosi direttamente a tutti i più autorevoli Iman presenti, ha infine concluso il suo discorso affermando che l’intero pianeta si attende questo cambiamento perché “la nostra comunità è “lacerata e sta per essere distrutta dalle nostre stesse mani e voi ne siete responsabili davanti a” “Dio e davanti agli uomini”.

Dopo avere invocato questo cambiamento radicale del ruolo politico dell’Islam, il presidente si è recato, insieme ai suoi più importanti ministri, ad assistere alla messa del Natale ortodosso nella cattedrale di San Marco del Cairo. Dopo avere augurato Buon Natale a tutti ha lanciato il secondo importante messaggio, annunciando che l’Egitto deve iniziare la fase di un nuovo pluralismo religioso, nel quale ” i cristiani e i musulmani debbono essere uniti e costruire insieme il nuovo “Egitto” e devono fra loro chiamarsi “egiziani” e nient’altro.

Queste parole cambiano radicalmente lo scenario del più influente paese islamico del mediterraneo, paese in cui la convivenza religiosa è stata in questi anni sopraffatta da continui scontri e, troppo spesso, da brutali atti di violenza.

Bisognerà certo vigilare sulla coerente applicazione di questi messaggi e vedere se penetreranno nel profondo dell’Egitto, anche perché non possiamo dimenticare la tragica fine di un analogo progetto di riconciliazione portato avanti da Sadat.

Oggi però siamo di fronte a un fatto nuovo: la sciagura del terrorismo minaccia con uguale intensità non solo l’Europa ma tutte le grandi potenze. Dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa alla Russia il terrorismo armato, soprattutto nel momento in cui esso diventa uno Stato, è per tutti il nemico da vincere.

Di fronte a un pericolo comune è quindi possibile una politica comune, prima di tutto premendo sull’Egitto, anche con aiuti economici, perché questo grande progetto di pacificazione sia messo in atto, con le doverose conseguenze nei confronti dei diritti civili di tutti i cittadini.

A questo si deve tuttavia accompagnare una strategia più a largo raggio per fare in modo che gli altri grandi stati islamici seguano la stessa via, a partire dalla Turchia che, insieme all’Egitto, ricopre un ruolo di assoluta leadership nel Mediterraneo e che, negli ultimi anni, ha invece fatto passi indietro nel processo di modernizzazione delle regole di convivenza che hanno costituito il fondamento del discorso di al-Sisi.

Penso che sia interesse di tutte le grandi potenze esercitare una pressione comune anche sugli altri governi dei paesi nei quali le tensioni religiose e lo “scontro di civiltà” hanno portato le conseguenze più funeste.

Sarà certo un processo lungo, che dovrà impegnare risorse economiche ancora più di quelle militari e, soprattutto, obbligherà a trattare anche con leader fino ad ora considerati intrattabili. È’ infatti evidente che, se vogliamo iniziare un processo di pacificazione solido e duraturo, esso non può che fondarsi sulla cooperazione con le strutture statuali dei grandi paesi islamici. El Sisi ci ha detto che vuole provarci in Egitto. Aiutiamolo a raggiungere l’obiettivo che lui stesso lo ha esposto e operiamo in modo che questa positiva novità si estenda a tutto il mondo islamico.

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17

Dec

La crescita non basta, l’Africa ha bisogno di una trasformazione economica e sociale

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

L’Africa è una priorità europea

Articolo di Romano Prodi e Mario Pezzini su Il Sole 24 Ore del 17 dicembre 2014

Come valuta l’Europa la situazione in Africa? Un giorno i titoli in prima pagina alimentano l’ottimismo: si tratta dell’area che registra la maggior crescita, con un ceto medio in espansione; il giorno dopo, le drammatiche notizie degli attacchi terroristici su larga scala e della pandemia fuori controllo fanno emergere un quadro fosco.

Sono i due volti di una realtà in rapida evoluzione, che abbiamo il dovere di comprendere per poter fornire risposte adeguate.

Grazie alla domanda mondiale di materie prime, al suo dinamismo demografico e alle crescenti esigenze dei suoi ceti medi, dall’inizio dello scorso decennio il continente africano ha continuato ad arricchirsi con un tasso medio annuo del 5,1%: il doppio rispetto al decennio precedente e di tre volte superiore alla crescita dei paesi Ocse negli ultimi dieci anni. In particolare i paesi produttori di petrolio: a quarant’anni dall’indipendenza, l’Angola è ora in grado di offrire il suo aiuto all’ex potenza coloniale, il Portogallo, indebolita dalla crisi economica. Ma anche paesi come l’Etiopia, che possiedono meno materie prime. La nuova ricchezza del continente africano è dovuta in gran parte al maremoto provocato dal riaffiorare della Cina in questi ultimi tre decenni, che ha permesso a 83 paesi in via di sviluppo di registrare tassi di crescita pro capite almeno doppi rispetto a quelli dei paesi Ocse.

Tuttavia, anche se non possiamo che accogliere favorevolmente le migliori performance del continente africano, sarebbe errato esserne soddisfatti: l’Africa ha bisogno di una crescita più forte, inclusiva e duratura. La maggior parte delle economie africane infatti, partite da livelli di reddito estremamente bassi, progrediscono con un tasso di crescita di molto inferiore a quello del 10% registrato dalla Cina nell’ultimo trentennio. I tassi di risparmio restano di gran lunga inferiori a quelli dei paesi asiatici al momento del loro decollo economico e molte economie locali dipendono ancora notevolmente dai flussi finanziari esteri. La crescita dell’Africa non genera inoltre un numero sufficiente di posti di lavoro. Alla vigilia della rivoluzione tunisina del gennaio 2011, tutti gli indicatori economici erano positivi e nessun osservatore aveva percepito la frustrazione di un popolo desideroso di libertà e soprattutto dei giovani diplomati senza lavoro, esclusi dalla crescita. In tutto il continente, meno del 10% dei giovani ha un impiego dignitoso, mentre gli altri alimentano il cosiddetto settore informale, oppure lavorano senza retribuzione nell’azienda familiare.

Le istituzioni del continente, prima tra tutte l’Unione africana, hanno avanzato la corretta diagnosi: la crescita attuale non basta, l’Africa ha bisogno di una trasformazione economica e sociale. Questa non nascerà automaticamente dall’attuale congiuntura di crescita economica. Sarà necessario attuare strategie e politiche pubbliche per stimolare la diversificazione economica, rafforzare la competitività e promuovere le attività che creano occupazione e valore sul territorio.

I governi stanno progressivamente implementando queste strategie, all’interno delle quali le ingenti risorse naturali del continente dovranno svolgere un ruolo essenziale. Tuttavia resta ancora molto da fare: l’Africa investe in media tredici volte meno per km2 nell’esplorazione delle risorse minerarie rispetto a Canada, Australia o Cile. Lo sfruttamento di tali risorse e i profitti che esso genera devono poi servire ad avviare la diversificazione del settore industriale e delle esportazioni. Anche in questo ambito le sfide sono enormi, segnatamente a causa delle dimensioni ridotte e della frammentazione dei mercati interni dei numerosi paesi del continente. L’impennata del commercio africano (più che quadruplicato nell’arco di dieci anni) è sicuramente un segno positivo, tuttavia la sua partecipazione agli scambi mondiali dei beni intermedi, un buon indicatore delle capacità di un paese di percepire i benefici del commercio internazionale e delle catene globali del valore, supera appena il 2%. L’Africa continua a essere prevalentemente un fornitore di materie prime, destinate ad essere valorizzate in Asia o nei paesi Ocse.

Infine, la ricchezza economica emergente non contribuisce automaticamente al benessere della popolazione. La creazione di istituzioni stabili ed efficienti, capaci di garantire pace e prosperità, è un processo che richiede tempo. Risulta così evidente che l’offerta di servizi pubblici quali sanità, istruzione, sicurezza, giustizia, ecc. non segue l’andamento della crescita, in Africa come altrove. Ciò è dimostrato dall’incapacità dei paesi colpiti dalla crisi sanitaria di far fronte all’ebola; in particolare la Sierra Leone, che secondo le previsioni di alcune settimane fa avrebbe raggiunto nel 2015 un tasso di crescita a due cifre. Sarebbe un errore imputare queste carenze agli effetti della cattiva governance e delle appropriazioni indebite. Si tratta certo di problemi reali, ma anche quando gli sforzi sono sinceri, i progressi rimangono lenti. Le imposte percepite dagli stati africani, volte a finanziare i servizi di pubblica utilità, molto spesso provengono principalmente dalle royalties versate dalle multinazionali che operano nei settori energetico, minerario e dell’agricoltura commerciale. Per quanto riguarda il regime fiscale delle aziende locali, esso tende troppo spesso a penalizzare le PME regolari, mentre un numero troppo elevato di grosse transazioni “informali” evadono il fisco. Tutti questi elementi non costituiscono una base solida per il contratto sociale tra stato e cittadini. La trasformazione economica deve contribuire alla ricchezza di imprese, lavoratori e consumatori africani per consentire loro di diventare, grazie a una fiscalità equa e ad incisive politiche pubbliche, i primi attori del loro benessere.

L’Europa non può accontentarsi di attendere che questi cambiamenti si verifichino. Deve attingere alle proprie risorse finanziarie, umane e tecnologiche per adattare le sue capacità di cooperazione alla nuova situazione strategica e geopolitica africana. Più che di aiuti finanziari, si tratta di condividere esperienza, tecnologia e conoscenze. L’Europa, dal canto suo, deve impegnarsi sulla via della solidarietà con il progetto di trasformazione del continente: l’Africa è troppo vicina a noi per essere considerata alla stregua di una questione di politica estera.

Romano Prodi, già presidente del Consiglio italiano e della Commissione europea, è stato Inviato Speciale del Segretario Generale dell’Onu per il Sahel e Mario Pezzini è Direttore del Centro per lo Sviluppo dell’Ocse

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5

Dec

Dopo l’Irak, i terroristi minacciano Sinai e Sahel, possiamo vincerli solo con un coordinamento internazionale

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Romano Prodi: terrorism in Sinai and in Sahel is no less dangerous than in Irak. It must be answered with an international strategy

Intervew by Hend Elasyed Hani to Romano Prodi on Al-Ahram Daily of December 4th 2014

There is still an open dialogue with Europe in search of a strategy to counter terrorism in the region, in light of the coordination led by Egypt in the Mediterranean. Finally, the first step came with the announcement of the Egyptian Italian participation against terrorism during the visit by President Sisi.

In an interview for “Al-Ahram” over the phone, Romano Prodi, former United Nations envoy to the Sahel, reveals that the level of the threat require to move upwards the scale of the risk.

Prodi is one of the most influential international figures on the scene by virtue of its current location, as well as his former job positions. Previously, he served as Chairman of the Council of Ministers in Italy, and was appointed President of the European Commission. A dialogue between him and President Abdel Fattah Sisi took place in July over the phone, in the framework of international coordination on the Libyan situation.

How can the Egyptian-Italian convergence be effective in addressing the crises the region, particularly terrorism?

”I think that terrorism has changed in quality. We have to be very careful against terrorism in Iraq and Syria, or it may extend to the surrounding areas and become a greater threat, and this of course affects Italy itself. I think we have to work together to apply progresses in economy and raise living standards for all peoples of the region. There should be a reaction to stop the spread of terrorism, at the same time with the development of society”.

Do you think that there is still a chance to combat terrorism in Libya?

”As far as Libya is concerned, there should be a broad agreement among the various forces in the battlefield. Since a nation with two governments and many armed forces cannot exist. This is a kind of chaos. The problem is not only to take action against terrorism, but also to re-build a new Libya. I emphasize here the importance of the role of Egypt and Algeria. There is a task for Egypt and Algeria which is very important, and that task can’t be fulfilled by Europe or by the United States or by other powers only. There is a need to develop a real initiative with the contribution of these two important countries by virtue of their presence in the region. In this case; military operations alone can never be enough. Military operations may help, but the problem lies in building a society that includes all sects”.

Three years ago, did you think that the Arab Spring would become what it has become?

”The Arab Spring took different directions, so it is difficult to talk about the Arab Spring. Every nation has taken its own destination. Though we are still watching what approach Tunisia will undertake; but it is true that they managed to build a different consensus that was hard to find in Egypt. So it is difficult to develop a definition of the Arab Spring that includes all the different experiences in the region”.

Are you satisfied with the European role in the Mediterranean?

”Not at all, when I was president of the Commission, there was a common engagement policy of the European countries in the Mediterranean and this task was a priority. I Proposed the creation of a so called Ring of friends that includes all countries around Europe. I proposed the establishment of a Bank of Mediterranean with participants from the north and the south involved on an equal basis. I proposed the establishment of a joint University of Mediterranean comprising an equal number of students from the north and from the south, in order to build a new relationship between us. Honestly, this was my contribution on the engagement with the Mediterranean ten years ago. There must be a new European policy towards the Mediterranean and this should be a priority”.

Egypt is involved in a fierce war against terrorism in the Sinai region, what support could be provided by the international community to Cairo?

”This is one of the main risks that we are facing now. Everyone is talking about terrorism in Iraq, but there are two other important fronts where we must fight terrorism. Namely, the Sinai and the African Sahel. The situation in these areas is no less dangerous than that in Iraq. Terrorism is no longer a local terrorism, but an international terrorism. This difference is becomes evident when we compare the current situation to events that took place before. The terrorism threat now is no longer limited to countries where it is already evident. Since terrorism is an international threat, it must be answered with an international strategy”.

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