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18

Sep

L’Africa ha dignità politica. Il mondo la riconosca.

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 settembre 2009

Si discute tanto e si fa tanto poco per l’Africa. Il grande “continente nero” continua infatti ad essere oggetto e non soggetto della politica mondiale. Quando nascono conflitti così tragici da contare i morti a centinaia di migliaia come in Ruanda, Sudan o Somalia l’opinione pubblica si commuove e per un po’ di tempo si mobilita. Poi tutto viene dimenticato, lasciando alle poche migliaia di soldati delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana l’impari compito di gestire le sanguinose conseguenze di queste guerre, così come alle associazioni non governative e ai missionari di fare fronte alla tragedia quotidiana dei più diseredati. Intanto le vendette e gli assassini continuano senza sosta e senza nemmeno avere l’onore della cronaca.

Ormai le guerre africane non sono guerre tra Stati, ma fra etnie, gruppi tribali o semplicemente per bande armate che si schierano ora con i governi ora contro i governi. È una storia infinita, che da decenni vede i conflitti diffondersi da Paese a Paese attraversando i confini artificiali tracciati in passato dalle potenze coloniali senza tener conto di etnie, religioni, caratteristiche geografiche e risorse naturali. In questo quadro ogni grande potenza adotta una sua “politica africana” costruendo rapporti bilaterali con i Paesi a lei legati: la Francia con i Paesi francofoni, la Gran Bretagna con quelli anglofoni, gli Stati Uniti soprattutto con i Paesi petroliferi del West Africa, mentre la Cina adotta una politica veramente continentale, curando relazioni intense con la quasi totalità dei Paesi africani, cioè cinquanta su cinquantatré. Il tutto in una logica prevalentemente bilaterale cioè da Paese a Paese. Il che significa, dal punto di vista economico, impedire ogni possibilità di sviluppo futuro di tutti i Paesi africani che, da soli, non raggiungeranno mai la forza e le economie di scala per costruire strutture capaci di competere con il resto del mondo.

Nemmeno le più grandi nazioni del continente come l’Egitto, il Sud Africa e la Nigeria hanno la dimensione sufficiente per costruire una solida economia nazionale. Il commercio tra i Paesi dell’Africa è minimo (raggiunge solo il 10 % del loro commercio estero totale) perché mancano infrastrutture, accordi ed istituzioni che li leghino tra di loro. Dal punto di vista politico la rigorosa applicazione del concetto statuale ereditato dalle potenze coloniali impedisce di tener conto delle realtà più complesse, come le tribù, le etnie, le appartenenze religiose o i tradizionali rapporti o interessi consolidati nei secoli. Per far fronte a questo è nata l’Unione Africana che, raccogliendo tutti i 53 Stati africani (eccetto il Marocco) tenta con fatica di costruire una unità politica ed economica del continente. È un’unione imperfetta, embrionale e con poteri limitati ma è tutto ciò che il continente può preparare per organizzare il proprio futuro, anche per l’indubbia qualità di alcuni suoi leaders. Le grandi potenze sono però riluttanti a riconoscere ed aiutare questa realtà (solo la Commissione europea lo ha fatto) e non ritengono mai prioritaria la necessaria collaborazione tra i Paesi africani.

Anche nel delicato settore del peace -keeping soprattutto la Francia e la Gran Bretagna sembrano fare resistenza a dotare l’Unione Africana dei mezzi e dell’assistenza necessaria perché possa progressivamente contribuire a costruire e a mantenere la pace nel continente.

La motivazione di questa politica è che l’Unione Africana non è ancora pronta a svolgere questo compito. Ciò è certamente vero ma essa non sarà mai pronta se non riceve fiducia, mezzi, assistenza e aiuto per raggiungere questo obiettivo. Siamo insomma in un dilemma apparentemente senza soluzione: da un lato si deve constatare che l’Unione Africana non può, allo stato attuale, svolgere il compito di promuovere la convivenza e lo sviluppo degli Stati africani, mentre dall’altro, le tradizioni e gli interessi del passato non permettono che essa progredisca in questa direzione.

In tale quadro il presidente Obama si presenta come la nuova speranza. Ha fatto discorsi splendidi sull’Africa sia al Cairo che in Ghana, ha scelto inviati speciali molto più saggi e flessibili dei precedenti come il generale Gration per il Sudan, ma non ha ancora preso alcuna decisione concreta nel segno del cambiamento. Non c’è ancora una nuova politica americana per l’Africa.

Intanto la crisi economica morde l’Africa in modo ancora più violento di quanto non si prevedesse, esasperando ulteriormente le tensioni e la spinta verso l’immigrazione.

Non si può continuare a biasimare la Cina per la sua eccessiva presenza in Africa (presenza che costituisce per molti aspetti un’opportunità) senza proporre, insieme alla stessa Cina, una nuova e diversa politica. Una politica che tenga conto delle diversità e degli interessi comuni, dei nuovi ruoli che debbono giocare le etnie, le tribù e le appartenenze religiose. Una politica che, nello stesso tempo, preveda un rafforzamento dei compiti e dei poteri dell’Unione Africana.

Gli aiuti economici e l’assistenza umanitaria sono indispensabili, ma non bastano. Per costruire la pace e la collaborazione tra i diversi Paesi del continente africano occorrono nuovi strumenti politici.

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20

Jul

Una nuova speranza per il ritorno della democrazia in Iran

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

[lang_it]

L'ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafshanjani

L'ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafshanjani

L’intervento di venerdì scorso dell’ ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani ha spianato la strada ad una nuova speranza per una vera democrazia in Iran.

‘Tutti noi, le istituzioni, le forze di sicurezza, di polizia, il parlamento, e persino i manifestanti, dobbiamo muoverci nell’ambito della legge’, ha dichiarato. ‘Dobbiamo aprire le porte al dibattito. Non dobbiamo tenere così tante persone in carcere. Dobbiamo liberarli perchè possano prendersi cura delle loro famiglie ‘…’ Tutti gli iraniani devono ricostruire la loro fiducia nelle istituzioni, perché sono state profondamente danneggiate .. ‘

Come Presidente di una Fondazione che promuove un dialogo continuo e intenso come unico strumento per risolvere i conflitti sociali, appoggio pienamente questa posizione.

In Iran i mezzi d’informazione devono essere autorizzati a poter criticare le istituzioni.

La libertà di opinione e la libertà di stampa sono i pilastri della democrazia, e senza critiche non c’è spazio per il dialogo, e quindi per la pace.

Romano Prodi[/lang_it]

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22

Mar

Per la pace in Africa, responsabilizzare l’Unione Africana e creare un fondo mondiale per il peacekeeping

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

[lang_it]di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 Marzo 2009

L’Africa è ancora senza pace. Innumerevoli conflitti devastano il continente dalla Somalia, al Darfur, fino ai Grandi Laghi e alle coste dell’Oceano Atlantico. Il costo di questi conflitti si conta in milioni di morti, in distruzioni senza fine e nel blocco di qualsiasi processo di sviluppo. Alcuni di questi conflitti, anche se non con la dovuta profondità, sono noti all’opinione pubblica mondiale, mentre altri portano dolore e morte nell’indifferenza totale della comunità internazionale.

L’Africa è senza pace e non c’è sviluppo senza pace.

Una pace che non può essere ottenuta solo con le armi, ma con la prevenzione dei conflitti e la riconciliazione. E che si deve fondare sulla costruzione di strutture statuali, di una efficiente burocrazia, di un’etica pubblica e di grandi investimenti per strade, scuole, ospedali e strutture produttive.

Solo a queste condizioni si potrà rompere il ciclo della violenza.

La comunità internazionale e i paesi africani in particolare debbono essere messi in grado di vincere questa sfida sia per mezzo delle missioni di pace, sia (direi soprattutto) esercitando la necessaria azione per la prevenzione dei conflitti.

Le Nazioni Unite hanno svolto un’azione sempre più incisiva in queste direzioni e l’Africa costituisce il punto di maggiore impegno nel difficile sforzo di costruzione della pace.

Le truppe di pace dell’ONU schierate sui diversi fronti del pianeta sono oggi più di 110.000, di cui i tre quarti concentrati nel continente africano.

La spesa dell’ONU per il mantenimento della pace è passata da 1,5 Miliardi di dollari nel 2000 ai 7-8 miliardi di dollari oggi.

È uno sforzo grande ma che equivale al costo di poche settimane della sola guerra in Iraq e di poche ore del totale delle spese militari nel mondo.

L’attuale azione delle nazioni Unite deve essere quindi potenziata e resa più incisiva dal contributo di tutti i paesi che hanno i mezzi tecnici ed economici per raggiungere questi obiettivi.

Eppure le loro opinioni pubbliche fanno sempre più fatica ad accettare che sia messa a rischio la vita dei propri concittadini in paesi lontani e spesso del tutto sconosciuti.

Nonostante le riconosciute necessità, i paesi ricchi sono quindi riluttanti ad inviare uomini e truppe per interporsi nei conflitti in Africa.

È già stato difficile organizzare nel 2006 la provvidenziale e importantissima missione di pace in Libano. È quasi impossibile una simile missione nello scacchiere africano, dove questi interventi sono altrettanto necessari.

Non dobbiamo perciò stupirci quando ci rendiamo conto che troppo spesso gli sforzi delle Nazioni Unite non sono adeguati al compito né sotto l’aspetto quantitativo nè sotto l’aspetto qualitativo.

Per questo motivo il Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha affidato a un piccolo gruppo di lavoro (High Level Group) da me presieduto, il compito di rendere più efficace questo sforzo, promuovendo una più stretta collaborazione tra le Nazioni Unite e l’Unione Africana, una giovane struttura che raccoglie, ad imitazione dell’Unione Europea, tutti i paesi africani (escluso il Marocco) al fine di costruire crescenti strumenti di cooperazione politica ed economica.

Una collaborazione complessa perché, da un lato, è chiaro che le decisioni che riguardano la pace e la guerra non possono che essere nelle mani (e solo nelle mani) del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea delle Nazioni Unite mentre, dall’altro, è utile che l’Unione Africana sia messa in grado di contribuire in modo determinante al mantenimento della pace nel Continente.

Un crescente ruolo dell’Unione Africana non risponde solo a necessità di tipo “militare” ma è la condizione per una più efficace azione politica nei confronti delle parti in conflitto.

Parlando di Unione Africana ci si riferisce a una realtà ancora in formazione, che deve essere quindi progressivamente rafforzata non solo per costruire la pace ma anche per promuovere le cooperazioni economiche e politiche necessarie per il futuro di un continente frammentato in cinquantaquattro diversi stati, molti dei quali con un mercato interno così piccolo che non permette alcuno sviluppo futuro.

Le proposte concrete presentate da “Gruppo di lavoro” al Consiglio di Sicurezza e alla Commissione per il Peacekeeping dell’ONU vanno in due direzioni.

La prima prevede la possibilità dell’Unione Africana di utilizzare le risorse del bilancio delle missioni di pace delle Nazioni Unite per interventi che, per essere efficaci, debbono essere rapidi ed immediati e che, quindi, possono essere più efficacemente svolti da una struttura che opera in costante contatto con il teatro dei conflitti. Questa supplenza dell’Unione Africana deve essere limitata ad un periodo di sei mesi, dopo i quali la responsabilità delle operazioni dovrà ritornare alle Nazioni Unite.

La seconda proposta prevede la creazione di un nuovo grande fondo mondiale, al cui contributo dovranno partecipare tutti i paesi che hanno interessi e presenza nel continente africano, partendo dagli Stati Uniti e dall’Europa, ma coinvolgendo paesi di tutti i continenti, a cominciare dalla Cina che è, in questo momento, l’unico paese ad avere in Africa una strategia a livello globale.

Con questi mezzi l’Unione Africana potrà finalmente attrezzarsi con gli strumenti civili e militari necessari per svolgere un ruolo strategico nel costruire la pace e lo sviluppo del proprio continente.

Non è infatti possibile raggiungere la pace in Africa senza una presenza forte, attiva e continuativa da parte di chi rappresenta gli africani.

Nei prossimi mesi questi due progetti verranno perfezionati negli aspetti operativi. Già da ora, tuttavia, nonostante le difficoltà economiche, le reazioni di molti dei paesi consultati appaiono favorevoli a dedicare attenzioni e risorse per il nuovo fondo a servizio della pace in Africa.

Occorrerà ancora molto lavoro per fare prevalere l’idea che la pace in Africa è dovere e interesse di tutti, ma è tuttavia consolante constatare che questo lavoro è almeno cominciato.

Romano Prodi[/lang_it]

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13

Mar

L`industria: passato o futuro della nostra economia?

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

L`industria: passato o futuro della nostra economia?

Charles Chaplin in Modern Times

 

Lezione di Romano Prodi presso la Real Academia de Ciencias Economicas y Financieras de Espana

Barcellona, 12 marzo 2009

Una certa attività politica svolta tra Roma e Bruxelles mi ha, per un notevole numero di anni, tenuto lontano dagli studi di economia industriale che per tanto tempo avevo con passione coltivato. Sono stati anni di grandi cambiamenti e di trasformazioni radicali nel sistema economico mondiale. Si sono aperti nuovi orizzonti nella ricerca e nella produzione. Nuovi paesi sono entrati imperiosamente nella grande arena dell’economia mondiale. Nuovi protagonisti hanno rubato la scena ai vecchi attori.

Quando pochi mesi fa ho ripreso in mano, non con l’affrettato sguardo del politico (sempre protetto e spesso annebbiato dai suoi uffici studi), il quadro di riferimento dell’industria mondiale, mi sono trovato di fronte a una trama quasi irriconoscibile. Un quadro mutato negli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione e del commercio internazionale.

Non volendo annoiarvi con una valanga di dati statistici, l’eccesso dei quali è lo strumento migliore per nascondere la necessaria riflessione, basti mettere in rilievo che, all’immediata vigilia della grande crisi che stiamo ora vivendo, ben il 40% delle esportazioni mondiali proveniva da paesi di recentissima industrializzazione, con tutte le implicazioni che questo semplice dato contiene. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, vent’anni fa, questa quota era relativamente trascurabile.

Oltre a questa osservazione sui mutamenti del commercio internazionale, mi limito a richiamare la vostra attenzione sul trasferimento di settori industriali verso l’Asia, sulle crisi di interi distretti produttivi negli Stati Uniti ed in Europa e sulle conseguenze politiche e sociali che questi cambiamenti hanno prodotto. Mutamenti epocali che hanno, per il bene e per il male, radicalmente cambiato il nostro modo di vivere.

una antica fabbrica

 

Mai per un attimo ho pensato che questi cambiamenti abbiano avuto effetti soltanto o prevalentemente negativi: essi sono stati il necessario strumento per un aumento generale del benessere del globo e per un passaggio verso condizioni di vita più umane di miliardi di persone, anche se è evidente che tutti i grandi cambiamenti lasciano vittime sulle loro strade e creano la necessità di interventi politici che non sempre sono all’altezza della situazione e che sono risultati particolarmente difficili in un periodo storico in cui il filone portante della scienza economica riteneva che il mercato fosse sempre in grado di trovare il proprio equilibrio senza interventi esterni.

Un periodo storico in cui perfino il termine “politica industriale” suonava eretico nelle orecchie di gran parte degli economisti.

Ciò che più mi ha colpito, e su cui vorrei riflettere insieme a voi, non è tanto la dimensione di questi cambiamenti, perché essa è nota a tutti voi e fa parte della nostra comune esperienza, quanto invece le reazioni dei politici e degli studiosi di fronte a questi eventi. Soprattutto vorrei esaminare come essi hanno interpretato il rapidissimo passaggio da un’economia dominata dall’industria ad un’economia di carattere prevalentemente terziario.

Ebbene, il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia è stato nella maggior parte dei casi interpretato come un passaggio naturale, identico nelle cause e nelle conseguenze a quello che si era manifestato con l’abbandono dell’agricoltura nelle generazioni precedenti.

Gli indici del processo di terziarizzazione della società sono stati perciò considerati la misura e il segnale del progresso di tutti i paesi a elevato livello di reddito. Più elevato era il tasso di terziarizzazione dell’economia di un paese, più forte appariva il suo sistema economico.

Vi è naturalmente una certa parte di verità in questa sapienza convenzionale perché l’industria stessa, se vuole progredire, ha bisogno di un supporto di servizi efficiente e moderno. Non vi è attività manifatturiera moderna capace di prosperare se non ha al suo fianco una sofisticata struttura finanziaria, una scuola per tutti, raffinati centri di ricerca, infrastrutture moderne ed una pubblica amministrazione capace di accompagnare, con la sua efficienza, il complicato funzionamento di una complessa organizzazione economica.

Tutto ciò si riflette naturalmente in un mutamento dei dati statistici e censuari, la lettura dei quali ci spinge a concludere che inevitabilmente il progresso economico di un paese si accompagna al prevalere del settore terziario.

Nemmeno io mi sottraggo completamente a questa conclusione, ma una più attenta riflessione sui comportamenti dei sistemi economici contemporanei mi porta a sostenere che in queste valutazioni ci si è spinti troppo avanti.

Esse infatti trascurano il grande contributo che viene apportato al progresso e all’intelligenza di un paese da una forte e moderna industria manifatturiera, anche se, ovviamente, essa è sempre più spesso una manifattura in cui anche i colletti blu sono laureati o diplomati.

Se è valida l’affermazione che non vi è un’industria efficiente se non è supportata da un moderno settore terziario, è infatti altrettanto valida l’affermazione opposta che, almeno in un grande paese, non vi può essere nel lungo periodo un terziario prospero se non è sorretto ed affiancato da una forte industria manifatturiera.

una industria moderna

 

Entrambe queste affermazioni sono compatibili con la continua diminuzione degli addetti all’industria, dato che nel comparto produttivo l’automazione gioca un ruolo ormai dominante. Il continuo aumento degli addetti al terziario, è inoltre in parte esaltato dal fatto che la moderna organizzazione aziendale tende a decentrare all’esterno dell’impresa una parte sempre crescente del processo produttivo. Non solo servizi di pulizia, ristorazione e manutenzione, ma funzioni aziendali essenziali come la progettazione o la stessa contabilità. L’attività industriale cambia i suoi connotati nel tempo, mentre la medesima flessibilità non può evidentemente esistere nelle regole dei censimenti. Questo aspetto tecnico tende naturalmente ad accentuare ulteriormente, dal punto di vista statistico, il processo di deindustrializzazione, attribuendo al terziario addetti e fatturati che, in precedenza, venivano invece attribuiti all’ industria.

Anche tenendo conto di queste necessarie correzioni, si deve tuttavia convenire che il calo del peso dell’industria negli Stati Uniti e in alcuni grandi paesi europei ha superato ogni previsione e, a mio parere, anche molte logiche di convenienza economica.

Per svolgere questo ragionamento prendo come esempio la Gran Bretagna, paese che è stato il protagonista e il simbolo della rivoluzione industriale.

Non può non destare stupore constatare che oggi operano nell’industria britannica circa 3 milioni di addetti, mentre più di 6 milioni sono attivi nei servizi legati alla banca e alla finanza.

Un dato quasi incredibile, se si pensa che all’inizio degli anni ‘80 il rapporto era esattamente inverso, con 3 milioni impiegati nel settore finanziario e 7 milioni nell’industria.

In meno di una generazione e con un consenso quasi unanime si è compiuta una trasformazione che, per rapidità e ampiezza, non ha avuto confronti nemmeno ai tempi della prima rivoluzione industriale.

Ancora più sorprendente, nel sottolineare la marginalità dell’industria nel sistema economico britannico, è constatare che il valore aggiunto dell’industria è pari al 12,6% del valore aggiunto dell’intera economia.

Non dissimili sono i dati della Francia e degli Stati Uniti.

Per questo rapido confronto mi voglio tuttavia limitare ai paesi europei, in modo da poter fare riflessioni e confronti su sistemi che sono fra di loro maggiormente omogenei.

Ebbene i dati censuari ci offrono sufficienti elementi di meditazione perché le diversità nel processo di passaggio dall’industria al terziario vanno oltre le previsioni e le comuni opinioni in materia.

Per accentuare l’attenzione sui problemi di nostro interesse ho messo soprattutto in rilievo i settori che riguardano l’economia reale. Nella tabella che segue (tratta dai dati Eurostat) ho voluto semplicemente isolare il diverso peso dell’industria (con uno sguardo anche all’agricoltura e alle costruzioni) nei cinque grandi paesi della “vecchia Europa”.

Valore aggiunto lordo percentuale (a prezzi correnti) per diverse attività

(anno 2007 – Dati Eurostat)

 

Agricoltura

Totale Industria

(escluso le

Costruzioni)

Industria

Manifatturiera

Costruzioni

Germania

0,9

26,7

23,9

4,0

Spagna

2,9

17,5

15,2

12,3

Francia

2,2

14,1

12,2

6,5

Italia

2,0

20,8

18,4

6,3

Gran Bretagna

0,7

16,7

12,6

6,4

Nell’economia di queste mie riflessioni non mi soffermo sui dati che riguardano il settore agricolo, limitandomi, a questo proposito, a mettere in rilievo il dato della Spagna, che si presenta come primo paese in termini di percentuale del valore aggiunto agricolo sul totale, superando (anche se ovviamente non in dati assoluti) la stessa Francia.

La nostra attenzione, nel leggere la semplice tabella tratta da Eurostat, riguarda l’industria (e l’industria manifatturiera in particolare). In essa il dato che riguarda la Germania si distacca fortemente da tutti gli altri, soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Non è una differenza di poco conto. È una differenza abissale in quanto il valore aggiunto dell’industria manifatturiera germanica è sostanzialmente il doppio in termini percentuali rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna.

Singolare è il caso dell’Italia, che si trova in situazione intermedia ma che, se escludiamo le regioni del Mezzogiorno nelle quali il valore aggiunto industriale è a livelli minimi, raggiunge livelli di intensità del settore manifatturiero pari a quelli tedeschi.

Esaminando l’industria europea si arriva al sorprendente risultato che essa si è sempre di più concentrata in una specie di cilindro che dal Nord Europa (ma soprattutto dalla Germania) scende fino a metà dell’Italia e lì si ferma.

I grandi paesi a ovest di questo cilindro, segnatamente Francia e Regno Unito, pur possedendo campioni nazionali di grandissimo rilievo mondiale e di assoluta efficienza tecnologica, non hanno tuttavia una diffusione dell’industria paragonabile a quella di Germania e Italia.

Germania e Italia, inoltre, presentano nel 2007 non solo il più alto valore aggiunto totale nel settore manifatturiero (rispettivamente 519 e 251 miliardi di euro) ma anche il più alto valore aggiunto pro-capite. Anche questo dato merita ampia riflessione e studi più approfonditi perché sembrerebbe dimostrare che una più diffusa presenza dell’industria garantisce più elevati livelli di produttività e che quindi può diventare pericoloso scendere al di sotto di certi limiti.

Anche se non è certo facile definire quali siano questi limiti, credo che sia necessario disporre di studi preliminari per elaborare una seria politica industriale.

Un’ulteriore riflessione su questi temi è suggerita dai dati elaborati dalla Fondazione Edison che ha esteso l’analisi dei dati Eurostat (riferiti al 2005) ad altri paesi di antica industrializzazione come Svezia, Olanda, Belgio e Irlanda.

Nella tabella (n. 2) si evidenzia il rapporto fra il valore aggiunto dell’industria manifatturiera (più agricoltura e turismo) da un lato e il valore aggiunto di finanza e costruzioni dall’altro. Cioè i due settori che hanno più contribuito a creare la “bolla” che ha portato alla crisi in cui ora ci dibattiamo.

Raffronto tra il peso dei principali settori di economia reale e dei settori oggi più in difficoltà a causa della “bolla” immobiliare e finanziaria in alcuni Paesi UE: valore aggiunto a prezzi correnti, dati di confronto per l’anno 20(valori in miliardi di euro)

 

Agricoltura, caccia, pesca

Industria manifatturiera

Turismo (Alberghi, ristoranti)

TOTALE PRINCIPALI ATTIVITA’ DI ECONOMIA REALE (A)

Intermediazione finanziaria

Costruzioni

TOTALE SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE (B)

RAPPORTO TRA IL VALORE AGGIUNTO DEI SETTORI DI ECONOMIA REALE E QUELLO DEI SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE E FINANZIARIA(A:B)

Paesi più specializzati nell’economia reale (escluse costruzioni)

Germania

17,3

459,3

33

509,6

100,8

80,2

181

2,8

Svezia

2,8

50,6

3,8

57,2

11,5

11,7

23,2

2,5

Italia

28,2

236,9

47,9

313

62,1

77,5

139,6

2,2

Paesi con specializzazione “mista”

Belgio

2,2

46

4,3

52,5

15,9

13

28,9

1,8

Francia

33,8

204,9

36,7

275,4

75,3

87,5

162,8

1,7

Paesi più specializzati nella finanza e nelle costruzioni e oggi dunque più “esposti” alla crisi

Spagna

26

128,8

61

215,8

37,7

93,8

131,5

1,6

Olanda

9,5

65,2

8,5

83,2

35,1

24,6

59,7

1,4

Irlanda

2,7

33,7

3,2

39,6

14,5

14,1

28,6

1,4

Regno Unito

10,9

217,3

47,9

276,1

137,4

99,5

236,9

1,2

Fonte: elaborazione Fondazione Edison su dati Eurostat

Ebbene, anche prendendo in esame questi pur discutibili parametri, la differenza strutturale fra i diversi paesi europei appare degna della massima attenzione. Naturalmente ogni conclusione riguardo ai rapporti tra struttura produttiva e fragilità di fronte alla crisi economica appare oggi prematura e non provata. Mi auguro tuttavia che anche su questi particolari temi dei rapporti fra struttura produttiva e performance dell’economia si verifichino gli approfondimenti scientifici necessari per elaborare una politica industriale non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello europeo.

Non credo che si possa arrivare a definire un livello ottimale e nemmeno un livello minimo dell’attività industriale in ogni paese, ma penso che una riflessione su questi temi non sia affatto fuori luogo.

È evidente che, per arrivare a conclusioni meno affrettate, sarebbe necessaria un’analisi disaggregata per settori, per dimensione e tipologia di imprese, ma già le correlazioni messe in evidenza ci obbligano ancora una volta a mettere in discussione l’assioma da cui siamo partiti, cioè che i sistemi economici progrediscono sempre con il progredire del settore terziario.

Tanto più che il livello di tecnologia e di innovazione iniettato nell’industria si traduce in un continuo aumento di produttività del settore.

la crisi del 1929

 

Anche le proiezioni future fanno pensare ad un continuo e sostanzioso aumento del valore aggiunto per ora lavorata dell’industria, anche senza tenere in conto i potenziali progressi di settori ad alta intensità di ricerca come le scienze della vita e le nuove energie.

Un altro elemento che aggiunge forza al dubbio sul parallelismo tra l’esodo dall’agricoltura e quello dall’industria è dato dal fatto che una serie di fattori, come l’aumento dei costi di produzione nei paesi di nuova industrializzazione, e le più raffinate e specifiche esigenze da parte dei consumatori, spingono a pensare che il grande processo di delocalizzazione che si è verificato negli ultimi due decenni abbia ormai raggiunto e superato il suo massimo sviluppo.

Su questo punto non vi è ancora un segnale univoco, anche se l’ipotesi di un’attenuazione del fenomeno è confermata dal fatto che le migrazioni di settori a basso valore aggiunto e ad altrettanto basso contenuto tecnologico si sono in gran parte già concretizzate. Pensiamo allo spostamento verso l’Europa dell’Est e soprattutto verso l’Asia, di tessile, abbigliamento, giocattoli, mobili, arredi per la casa e componenti meccaniche ed elettroniche elementari. Trasferimenti ulteriori avverranno certamente ma ad un ritmo meno impetuoso e con possibilità di strategie di contenimento e di reazione assai più efficaci che in passato. Non parlo naturalmente di azioni di tipo protezionistico, che costituirebbero per tutti un tragico destino, ma di una capacità di risposta prima di tutto attraverso processi di innovazione e di automazione che rendono meno determinante la differenza del costo di mano d’opera che è stato ed è la causa principale del decentramento produttivo.

Ed in secondo luogo, in conseguenza di un maggior grado di sofisticazione da parte del consumatore si nota, in un numero crescente di casi, un ritorno di competitività da parte delle imprese che, per consuetudine o vicinanza geografica, sono in grado di meglio interpretare questa maggiore sofisticazione del consumatore.

Non è tuttavia questo il tema su cui voglio ora soffermarmi: mi preme infatti maggiormente ritornare a riflettere sulle diversità della presenza dell’industria in paesi europei con un livello simile di reddito e di sofisticazione della società.

Parlo soprattutto del più alto tasso di presenza industriale della Germania, ma lo stesso discorso vale per l’Italia del centro-nord e per alcune aree ad esse vicine (e, al di fuori dell’Europa, per il Giappone).

In Germania (ed in Giappone) l’importanza dell’industria manifatturiera si colloca in un ordine quantitativo non lontano dal doppio di quello britannico, francese o americano.

Economisti, storici e sociologi si sono naturalmente affannati per spiegare queste differenze ed io stesso vi ho dedicato una certa attenzione, forse esagerando ma forse no, nell’attribuire importanza primaria all’istruzione tecnica. In questa sede voglio limitarmi a sottolineare alcune conseguenze non trascurabili sull’economia del paese (e soprattutto sulla bilancia commerciale) di una presenza industriale particolarmente intensa.

Le conclusioni mi sembrano abbastanza evidenti:  tutti i paesi con un alto indice di presenza industriale mostrano una bilancia commerciale molto più favorevole rispetto ai paesi che più velocemente hanno proceduto verso un processo di deindustrializzazione, qualsiasi sia la dimensione del mercato e del grado di specializzazione settoriale.

Prendendo come campione gli ultimi dodici mesi (v. Economist, Economic and Financial Indicators 21 febbraio 2009) la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha un passivo di 821 miliardi di dollari, la Gran Bretagna di 173 , la Francia di 80 miliardi, e la Spagna di 149.

La Germania presenta invece un attivo di 264 miliardi e il Giappone di 36, mentre l’Italia presenta un modesto passivo di 17 miliardi, pur essendo importatrice della quasi totalità del proprio fabbisogno energetico. Si tratta naturalmente di un quadro limitato alla bilancia commerciale. Esso non tiene evidentemente conto dei movimenti dei capitali e di tutte le altre voci che formano il totale della bilancia dei pagamenti.

Se ritorniamo per un attimo alla bilancia commerciale e la depuriamo dalla bolletta energetica, troviamo che nel 2008 l’Italia ha mostrato un surplus commerciale pari a 61,4 miliardi di euro. E non sto certo parlando di un paese privo di problemi, ma di un paese sul quale hanno fortemente pesato in passato ed ancora oggi pesano fattori particolarmente negativi che riguardano la pubblica amministrazione, le infrastrutture, l’energia, i servizi ed il secolare problema non ancora risolto del divario territoriale fra il Centro-Nord ed il Sud del paese.

Ebbene, il fatto di avere conservato un apparato industriale di dimensioni ancora ragguardevoli, ha permesso all’Italia di fare fronte a tutte le debolezze precedentemente elencate e di mantenere un elevato livello di competitività nonostante il suo grado complessivo di “attrattività” sia così basso da essere costantemente in coda in tutti gli indici che riguardano l’ammontare degli investimenti esteri.(v. M. Fortis, L’Italia è seconda per competitività nel commercio mondiale, il Trade Performance Index UNCTAD/WTO 2006) .

la crisi finanziaria globale del 2009Per sottolineare l’importanza dell’industria nell’economia contemporanea ho messo in particolare rilievo il paradosso italiano anche perché mi trovo a rappresentare questo paese nel  consesso di fronte al quale ho l’onore di parlare, ma conseguenze ancora più evidenti sarebbero emerse se avessi presentato di fronte a voi i dati riguardanti la Germania che, negli indicatori precedentemente presentati, risulta al primo posto mondiale nel surplus della bilancia commerciale.

Ed è ancora più interessante esaminare ancora l’indice TPI (Trade Performance Index) elaborato da UNCTAD/WTO che prende in considerazione non solo il saldo commerciale, ma anche il livello di export pro-capite ed altre caratteristiche come la diversificazione dei mercati di sbocco. Ebbene in questo indice la Germania conquista nel 2006 ben 7 primi posti tra i 14 macrosettori esaminati e primeggia in settori che hanno tra di loro diverse caratteristiche tecnologiche ed un diverso contenuto di innovazione.

L’industria tedesca prevale ad esempio nei mezzi di trasporto, nella chimica, nella meccanica elettrica, nelle macchine per l’industria, mentre l’Italia prevale ovviamente nei suoi settori più tradizionali come abbigliamento, calzature e mobili, ma tiene il secondo posto anche in comparti come la meccanica elettrica, la meccanica strumentale e i manufatti di base.

Naturalmente tutte queste riflessioni fotografano situazioni precedenti la crisi economica mentre, allo stato attuale, non abbiamo indicazioni soddisfacenti né sulla durata né sulla profondità della crisi.

E nemmeno sappiamo come i diversi paesi usciranno da questa crisi, anche se io penso che le evoluzioni ed i dibattiti in corso spingano a pensare che il “problema industriale” avrà una nuova centralità sia nelle discussioni accademiche che nelle politiche governative di tutti i paesi ad elevato livello di sviluppo.

Un fatto è già acquisito, che cioè dopo vent’anni nei quali il termine era stato bandito, si ritorna a parlare di “politica industriale”, anche se ci auguriamo che questo indispensabile ritorno di saggezza e di buon senso non sia maldestramente usato per scopi protezionistici.

Se le precedenti riflessioni mi spingono a pensare ad una nuova futura centralità del problema industriale, questo non significa che non si verificheranno grandissimi cambiamenti sia dal punto di vista di modelli organizzativi delle imprese, sia dal punto di vista settoriale.

Abbiamo già accennato alla fondata ipotesi che due settori saranno particolarmente rinforzati, e cioè il settore della scienza della vita e il settore energetico-ambientale.

A questi orientamenti corrispondo chiare indicazioni di politiche pubbliche di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dove sono previste ingenti risorse a favore dei così detti “green jobs”.

Nella pubblicistica generale si è preferito mettere in rilievo i sussidi all’industria dell’automobile ma non si debbono dimenticare i 18,5 Miliardi $ per le energie rinnovabili, i 2 M$ per le nuove batterie, i 2M$ per il sequestro dell’anidride carbonica.

Il tutto con un aumento particolarmente positivo dei “green jobs” nel settore manifatturiero.

È probabile che la crescita di questi nuovi settori, per la loro particolarità, possa avvenire anche al di fuori di un diffuso contesto industriale ma credo che, proprio per la tecnologia di incrocio che essi richiedono, il loro sviluppo sia grandemente favorito da un ambiente industriale fortemente radicato e diversificato.

Anche la presente crisi ed i suoi probabili sviluppi produttivi ci spingono a porci di nuovo la domanda che è stata il filo conduttore di queste brevi riflessioni e cioè quale è e quale sarà il ruolo dell’industria nei paesi più avanzati e se esiste un livello minimo di presenza dell’industria manifatturiera al di sotto del quale vengono grandemente ridotte le prospettive di efficienza e di sviluppo dell’intera economia.

Sappiamo che non esistono leggi universali in materia, sappiamo che grandissime sono le diversità da paese a paese ma sappiamo anche che le argomentazioni svolte in precedenza e gli interrogativi da esse sollevate meritano un’attenzione molto superiore a quelle riservate a questi temi in passato.

L’industria europea è troppo importante per non richiedere riflessioni e risorse dedicate a preparare per essa una nuova primavera.

Romano Prodi

P.S.: Può sembrare una scelta un po’ particolare quella di parlare di problemi strutturali di lungo periodo in presenza di una gravissima crisi economica mondiale.
Credo invece che se anche negli anni scorsi avessimo affrontato questi problemi forse avremmo evitato qualche disastro e ancora di più credo che proprio quando la crisi è più grave bisogna pensare a come sistemare le cose per preparare un futuro un poco migliore.

 

 
 

 

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26

Feb

Bilancio più forte e titoli europei per battere la paura

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Bilancio più forte e titoli europei per battere paura

di Romano Prodi su Il Messaggero

del 26 febbraio 2009

ROMA (26 febbraio) – Domenica scorsa a Berlino i più importanti paesi europei si sono trovati finalmente d’accordo per farsi promotori di una nuova trasparenza nei mercati finanziari internazionali. Una decisione estremamente importante per evitare in futuro altre crisi ed estremamente urgente perché bisognerà cominciare a tracciare le concrete linee di azione in materia fin dalla prossima riunione dei G 20 che si svolgerà a Londra nei primi giorni di Aprile.

Non sarà facile portare in porto questo progetto perché, al momento opportuno, sorgeranno mille ostacoli, certamente costruiti da chi ha interesse che zone d’ombra e paradisi fiscali rendano difficile creare davvero trasparenza nel fiume di denaro che corre per il mondo.

La recente tensione fra Stati Uniti e Svizzera sul segreto bancario è solo una pallida premessa dei conflitti che sorgeranno quando si vorrà davvero dare concretezza a questo difficile ma indispensabile progetto. Per questo motivo è grandemente opportuno che l’Europa abbia deciso una coraggiosa iniziativa in materia.

Se è bene guardare alle grandi riforme di domani bisogna però evitare che la casa europea bruci oggi. Nelle scorse settimane, infatti, i singoli paesi, anche quelli che appartengono all’Euro, sono stati lasciati soli a difendere la propria economia e le proprie banche nella tempesta. La speculazione ha cominciato a saggiare il terreno e i tassi dei titoli pubblici di Irlanda, Grecia e Portogallo ( e in minore misura di Spagna e Italia ) si sono progressivamente allontanati da quelli tedeschi, mentre le difficoltà economiche e le conseguenti debolezze delle banche dei paesi membri non appartenenti all’Euro (soprattutto nei paesi nuovi) stanno pericolosamente mettendo in crisi tutto il sistema bancario e finanziario europeo.

Se vogliamo evitare che i paesi vengano messi in ginocchio uno alla volta occorre perciò dotare l’Unione Europea di strumenti di difesa comune.

In questo momento la solidarietà europea non è solo un fatto etico ma il nostro più efficace strumento di difesa contro l’allargarsi della crisi. Per essere ancora più chiari voglio dire che ogni Euro dedicato alla difesa dell’economia europea nel suo complesso vale molto di più di un Euro dedicato alla difesa di un singolo paese.

Perché la speculazione ha paura di una Europa forte e unita e colpisce solo i paesi isolati.

Se così stanno le cose è necessario, in sede europea, prendere urgentemente due decisioni.

La prima riguarda un aumento del bilancio dell’Unione.

Esso è oggi inferiore all’1% del PIL europeo e va portato subito, nell’ambito della Revisione di Bilanci 2008-2009 all’1,25, dedicando questo quarto di punto in più ad interventi straordinari volti ad alleviare le tensioni dei paesi dentro e fuori dall’Eurozona, aiutando in questo modo a stabilizzare i mercati finanziari europei.

La seconda decisione è l’emissione di titoli del debito pubblico a livello europeo, che si affianchino e non sostituiscano i buoni del tesoro dei singoli paesi.

La costituzione, il controllo e l’impiego di questi titoli dovrà naturalmente essere nelle mani dei ministri delle finanze dell’Eurozona.

Questo sono gli strumenti per precedere e non semplicemente rincorrere le turbolenze dei singoli mercati. Attaccare l’Europa è infatti molto molto più difficile che attaccarne i singoli membri.

Ed è anche utile aggiungere che, mentre l’Euro è già diventata una valuta di riferimento e di riserva nei mercati mondiali, non esiste ancora un titolo rappresentativo dell’Europa in cui si possa oggi investire. Capisco che queste proposte possano creare punti interrogativi e perplessità nei paesi che dovrebbero sopportarne il peso maggiore, soprattutto in Germania, dove tante sono state le discussioni negli anni e nei giorni passati. Capisco che con questo si tocca un punto cruciale nel patto sottostante la costruzione dell’Euro, patto per cui la moneta è comune ma i debiti degli stati debbono rimanere separati. Tuttavia siamo arrivati ad un punto in cui è interesse di tutti ( a partire dalla Germania) fare fronte comune per rispondere ad un pericolo comune. Lo stesso ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrùck ha recentemente ammesso la necessità di intervenire nel caso vi sia il rischio di default di un paese. Il modo migliore non solo per intervenire e per prevenire questi casi è proprio quello di costruire ed utilizzare un mercato per gli Eurobond emessi a livello europeo.

E’ chiaro che di fronte a decisioni così importanti sarà necessario offrire alla Germania (come ha recentemente scritto Soros su queste pagine) e agli altri paesi più “virtuosi” garanzie di ferro per l’impiego di queste risorse comuni. Ritengo tuttavia che siamo arrivati al punto in cui la solidarietà non è solo l’aspetto essenziale dell’Unione Europea ma è uno strumento fondamentale per vincere la paura che sempre più alimenta la crisi mondiale.

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14

Feb

Guardandosi intorno

Inserito da ll  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

GUARDANDOSI INTORNO

Care amiche, cari amici,

il racconto che vi proponiamo oggi rappresenta una sorta di ‘diario di bordo’ delle visite internazionali che Romano Prodi ha fatto dopo la conclusione della sua esperienza di governo.

Al rientro da Palazzo Chigi, il Professore ha ritenuto di voler mettere la propria esperienza al servizio della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli. Una Fondazione che affronta le problematiche sociali, culturali, economiche, politiche del mondo’, che cerca nuove proposte di collaborazione nel contesto internazionale.

Il racconto qui proposto , scritto di suo pugno da Romano Prodi, parla del lavoro per la pace in Africa su incarico delle Nazioni Unite. Ricorda gli incontri con i vertici di governi in Cina, in Europa, in America Latina. Sono i primi passi di un lavoro intenso e appassionante. C’e’ il desiderio di rendere trasparente e condiviso il percorso intrapreso tappa per tappa, con chi ha manifestato interesse ad essere informato.

E’ uno scritto sintetico che consegna riflessioni rapide e vive. Dal primo viaggio di lavoro, in Spagna nel 2008, si arriva alla visita in Messico che ha avuto luogo poche settimane fa. Il testo e’ corredato da foto e rinvii a documenti di approfondimento. Potete trovarlo qui.

Se lo desiderate, potete inviare le vostre impressioni ed i vostri commenti sul Forum che la Fondazione ha preparato per voi.

Il Forum e’ pronto per voi qui. Potete iscrivervi e cominciare subito a dialogare.

Buona lettura
e buona partecipazione al Forum della Fondazione !

la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli

 

Rimettere ordine

A Palazzo Chigi

Terminata la mia attività di governo ho dedicato una notevole parte del mio tempo a “guardarmi intorno”.

Il che ha significato riprendere a studiare con sistematicità la politica, l’economia e i loro cambiamenti negli ultimi dieci anni e, soprattutto, potermi dedicare con intensità ed ampiezza di orizzonti a capire che cosa sta succedendo al di fuori dei confini italiani.

Il tutto naturalmente inframmezzato da un vero e proprio lavoro di “facchinaggio” per stipare in un’unica casa l’enorme quantità di libri e carte che si erano via via accumulati a Bologna, poi a Bruxelles e quindi anche a Roma.

Data l’impenetrabilità dei corpi, molti libri sono dovuti forzatamente uscire di casa.

Il che provoca un certo dolore, ma anche la soddisfazione di rimettere in ordine le cose, accumulate in vent’anni, secondo un nuovo criterio.

Ci vorrà un tempo lunghissimo per finire questo lavoro ma questa opera di “riordino totale” è estremamente efficace per staccare rispetto al passato e riadattare la testa in vista dei cambiamenti futuri, volendo dedicare una particolare attenzione allo scenario internazionale.

L’attenzione all’estero esigeva ed esige naturalmente uno strumento di lavoro ancorché minimo ed estremamente agile.

È stato a questo proposito interamente cambiato lo statuto della Fondazione “Governare per”, trasformata in “Fondazione per la collaborazione fra i popoli“.

La nuova denominazione è stata scelta in modo da descrivere accuratamente i suoi obiettivi, e non esige quindi alcun commento.

Viaggiando in Europa

Inaugurazione dell'Anno Accademico 2008 all'Univesità di Santander

Il primo cerchio di questo sguardo al mondo è naturalmente dedicato ai temi europei, sia nell’analisi del presente sia nelle possibili evoluzioni future.

Questo interesse si è manifestato in una serie di convegni e di incontri in diverse parti d’Europa.

Tra questi appuntamenti posso ricordare il discorso all’Università di Tarragona (dove ho ricevuto il premio per il dialogo interculturale nel Mediterraneo), all’Università di Santander, alla celebrazione del decennale della Banca Centrale Europea a Francoforte, agli “Stati generali” dell’Unione Europea a Lione e come oratore alla Conferenza Winston Churchill, in ricordo del discorso pro-Europa tenuto nel 1948 da Churchill, che si svolge ogni anno presso l’Università di Zurigo.

Decennale della Banca Centrale Europea a Francoforte

Decennale della Banca Centrale Europea a Francoforte

Questi incontri sono stati l’occasione per riprendere il tema dell’Euro, dell’allargamento, del Mediterraneo e della politica del vicinato, il cosiddetto anello dei paesi amici (come ho spiegato in “Insieme” si tratta di «[Quei]…paesi che stanno attorno all’Unione Europea, quell’anello che va dalla Russia fino al Marocco […] con cui intraprendere una relazione speciale basata su una cooperazione stretta […] Tutti i paesi che ne fanno parte potranno avere con l’Europa rapporti sempre più stretti, fino a condividere tutto con l’Unione tranne le istituzioni».).

Dopo il tentativo, da parte di qualche osservatore, di trattare questi temi in modo affrettato e qualunquistico, si procede finalmente verso un’interpretazione più approfondita, più equilibrata e più veritiera della politica europea impostata e attuata dalla Commissione da me presieduta tra il 1999 e il 2004.

In un periodo di fortissima affermazione degli egoismi nazionali, le realizzazioni compiute sono un saldo punto di riferimento per il passato ed un punto di partenza per il futuro.

Si comincia anche a riflettere su quale sarebbe la situazione oggi senza l’ancoraggio all’Euro e senza l’allargamento a nuovi paesi che, fuori dall’Unione Europea, sarebbero fonte di divisione e di turbamento.

Questo soprattutto dopo che il referendum irlandese ha bloccato la positiva evoluzione di un’Unione Europea che già faticava a procedere nel suo processo di consolidamento.

Mi ha fatto inoltre piacere constatare personalmente in un tranquillo viaggio, i progressi di Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca dopo il loro ingresso nell’Unione Europea.

In Albania

Incontro con il Premier Sali Berisha

Incontro con il Premier Sali Berisha

In questa linea di aggiornamento sullo “stato” della politica internazionale mi è stato di estrema utilità un soggiorno in Albania occasionato dalla partecipazione come insegnante ad un corso tenuto dall’Università di Bologna presso l’Università della Nostra Signora del Buon Consiglio a Tirana.

È stata una occasione per incontrare nuovamente il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro, il Presidente del Parlamento, i sindaci di Tirana e Durazzo. Il sindaco di Girocastro, mi ha voluto concedere la cittadinanza onoraria per quanto compiuto in favore dell’Albania durante il periodo alla Presidenza del Consiglio e alla Presidenza della Commissione Europea.

È stato importante verificare quanto sia ancora vivo (anche a livello popolare) il ricordo della missione Alba che ha salvato l’Albania da una vera e propria guerra civile nel momento degli scandali finanziari e delle conseguenti violenti tensioni politiche.

Con tutta la difficoltà che questo processo comporta, l’Albania sta rapidamente cambiando e iniziando il proprio percorso di modernizzazione e di democratizzazione.

La prospettiva è, naturalmente, l’ingresso nell’Unione Europea, un ingresso accompagnato dalle necessarie riforme nella vita politica, economica e sociale del Paese. Vi sono molti che, naturalmente, pensano che il cammino di modernizzazione sia troppo lento, ma non dobbiamo dimenticare che sono passati poco più di dieci anni dal momento in cui l’Albania era considerata un paese in sicuro disfacimento.

All’ONU

Con Ban Ki Moon ed i membri del AU-UN panel: James Dobbins (United States), Jean-Pierre Halbwachs (Mauritius), Monica Juma (Kenya), Toshi Niwa (Japan), Behrooz Sadry (Iran).

con Ban Ki Moon ed i membri del AU-UN panel: James Dobbins (United States), Jean-Pierre Halbwachs (Mauritius), Monica Juma (Kenya), Toshi Niwa (Japan), Behrooz Sadry (Iran).

In settembre comincia in modo imprevisto una nuova attività, quella di presiedere un così detto “gruppo di alto livello” (High Level Group) nominato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite (in accordo con l’Unione Africana) per cercare nuove regole e nuovi finanziamenti indispensabili a rendere più efficace il Peacekeeping in Africa.

Il compito era quello di redigere di un rapporto, che presenterò in marzo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, attraverso una serie di aggiornamenti e approfondimenti ma soprattutto operando con un lavoro comune che si è svolto fra la sede delle Nazioni Unite di New York e la sede dell’Unione Africana di Addis Abeba.

La diversità delle due città non potrebbe essere più stridente e, nello stesso tempo più efficace nel descrivere quale debba essere lo sforzo per aiutare l’Africa ad uscire dal suo stato di “continente dimenticato”.

Questo lavoro si è fatto via via più appassionante, anche se non è facile assorbire in fretta gli aspetti tecnici ed operativi del peacekeeping.

Mi ha aiutato l’esperienza politica e operativa delle due missioni di peacekeeping da me direttamente organizzate in Albania e in Libano durante i due periodi della mia presidenza del Consiglio. Missioni che sono da tutti ricordate tra i casi di successo in questo campo.

con Ban Ki Moon

A rendere ancora più importante questo compito è l’evidenza dei dati che dimostrano quale sia la differenza, in termini di sviluppo, fra paesi che vivono in pace e paesi vittime dei conflitti.

La frase “non c’è sviluppo senza pace” non è una espressione retorica ma la semplice descrizione della realtà.

Una parte non trascurabile di questo rapporto è dedicato alle fonti di finanziamento che possono permettere alle Nazioni Unite e all’Unione Africana di organizzare in modo efficace il peacekeeping.

Problema che diventa sempre più acuto con l’aggravarsi della crisi economica.

Viene tuttavia spontaneo ricordare che la sproporzione fra le spese militari e quelle dedicate al peacekeeping è tale da essere persino difficile da spiegare.

Basta un dato sintetico. Il totale delle spese dell’ONU per il mantenimento della pace nel mondo è stato nel 2007 attorno ai 7 miliardi di dollari.

Una cifra forse non trascurabile a livello microeconomico, ma che è minore del costo di due settimane della sola guerra in Irak.

Anche per questo motivo pongo sempre il problema della partecipazione al processo di peacekeeping in Africa come prioritario in tutti gli incontri politici e i contatti da me compiuti a livello internazionale.

Questi contatti non sono naturalmente limitati ai leaders europei ma riguardano una sfera più ampia che va dall’Asia, all’America e all’Africa, dove è iniziato un dialogo sistematico sia con i leaders dell’Unione Africana sia con i responsabili politici dei paesi che si trovano in situazione di maggiore difficoltà e tensione.

L’importanza del dialogo

Dialogo (e questo deve essere sottolineato) non significa parlare solo con quelli che la pensano come te o ti sono vicini nell’azione politica.

Dialogo significa interagire anche con coloro che stanno provocando problemi e tensioni, non cessando mai di mettere sul tavolo le nostre convinzioni e le nostre analisi.

Continui sono perciò i colloqui (anche telefonici) con tutti i leaders africani, anche con coloro che più hanno tensioni e problemi con la comunità internazionale.

La mia esperienza mi ha sempre portato a concludere che non il dialogo ma la mancanza di dialogo ha provocato le maggiori tragedie dell’umanità.

Ho ricordato spesso in passato la mia sorpresa nel constatare come i protagonisti della politica medio-orientale in molti casi non si fossero mai parlati fra di loro, né nei rari momenti di distensione né nei periodi di maggiore tensione.

Farsi la guerra senza essersi mai scambiati direttamente alcuna parola appartiene alle grandi tragedie dell’umanità contemporanea.

Incontri in Iran

Conference on Religions in the Modern World

Conference on Religions in the Modern World

In questo quadro e in questa prospettiva si inserisce un viaggio in Iran, invitato (insieme all’ex Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan ed altri leaders politici e religiosi) ad un incontro della Fondazione Khatami sul dialogo fra le religioni.

È stata un’occasione non solo per parlare a fondo con l’ex Presidente della Repubblica Khatami più aperto verso la democrazia e l’occidente, ma per incontrare ancora una volta l’attuale Presidente Ahmadinejad, il “leader” supremo Khamenei, il sindaco di Teheran e gli altri leader iraniani.

Un’occasione per ribadire le aspettative europee nei confronti dell’Iran a spingere questo Paese non solo verso un mutamento del suo ruolo nel Medio Oriente ma anche riguardo al problema nucleare, punto di tensione e di rischio per tutta la politica mondiale.

con Mohammad Khatami

con Mohammad Khatami

Il rapporto con l’Iran aveva raggiunto un momento molto significativo quando, durante il mio primo Governo avevo fatto (unico leader europeo) un viaggio ufficiale a Teheran.

Un viaggio compiuto, dopo un lungo dialogo con il Presidente americano Clinton.

Da un lato la presidenza di Khatami e dall’altra la presidenza Clinton permettevano infatti un pur ristretto spazio di colloqui, spazio che si è progressivamente chiuso in seguito.

Il cambiamento della politica iraniana è la chiave di volta per la soluzione di molti problemi dell’area medio orientale ed è un mutamento difficile ma possibile anche perché la politica americana ha indebolito drammaticamente tutti i nemici dell’Iran.

Se vi fosse razionalità in politica la dirigenza iraniana avrebbe tutta la convenienza a passare ad una nuova fase di dialogo con gli Stati Uniti e l’Europa. E forse dovrebbe anche erigere un monumento a Gorge W. Bush nella piazza centrale di Teheran proprio perché, con la sua politica, ha regalato all’Iran il ruolo di grande potenza regionale.

L’interesse per la Cina

con Wen Jiabao

con Wen Jiabao

In novembre ho compiuto un lungo viaggio in Cina. Per essere preciso a Pechino.

Un viaggio dedicato a una serie di seminari su problemi politici ed economici di fronte all’Accademia del Partito Comunista Cinese, all’Accademia del Ministero degli Esteri, ai diplomatici in pensione ed ai giovani della scuola diplomatica. E con incontri con le massime autorità competenti sui problemi africani e, riguardo agli aspetti più tecnici della crisi, con la China Development Bank e la China Investment Bank.

I seminari erano divisi equamente fra temi di politica e di economia internazionale ma, nella discussione che seguiva la mia introduzione, i temi economici hanno finito con il prevalere.

Per la Cina si tratta infatti di affrontare per la prima volta dopo l’inizio del grande periodo di sviluppo, una pesante e diffusa crisi economica.

Grandissima preoccupazione ma anche una precisa coscienza del nuovo ruolo che la Cina può svolgere nell’economia mondiale non solo come protagonista nella produzione ma anche come il più grande possessore di titoli del debito pubblico americano.

Lunghe sono state le discussioni sul grande piano di rilancio della spesa pubblica cinese.

Interessante notare che mentre i commentatori americani ed europei ne accentuano soprattutto l’aspetto degli investimenti in infrastrutture (ferrovie, telefoni e strade) l’analisi interna pone soprattutto l’accento sull’enorme aumento di spesa nel settore sanitario, scolastico, della ricerca e del sostegno del reddito delle categorie più disagiate, soprattutto nelle campagne.

Se questa è la prospettiva e se i tempi di questa spesa saranno rapidi, queste decisioni provocheranno (attraverso un sensibile aumento del potere di acquisto interno) un forte e positivo processo di riequilibrio dell’economia mondiale.

Dimensioni e rapidità delle spese sono naturalmente le condizioni perché si ottengano risultati in linea con le aspettative.

Gli incontri sul problema africano sono stati rivolti a promuovere un forte impegno cinese per il peacekeeping in Africa.

Un’Africa pacificata e con forti tassi di sviluppo è, tra l’altro, la migliore garanzia per gli enormi investimenti compiuti e in via di realizzazione da parte cinese nel continente africano.

Di massima importanza è stato l’incontro privato di oltre due ore con il Primo Ministro Wen Jiabao, con il quale si è discusso con estrema franchezza e libertà sui temi più delicati sul tappeto; dalla crisi economica internazionale, ai rapporti con l’Unione Europea, al Tibet e alle prospettive della politica mondiale, soprattutto dopo il risultato delle elezioni americane.

Come atto di cortesia, le immagini dell’incontro sono state inserite nel telegiornale delle 19, di fronte al quale siedono abitualmente più di 500 milioni di telespettatori.

Credo che l’attenzione da me dedicata fin dal lontano passato all’Asia (ed in particolare alla Cina) fosse davvero ben posta e che oggi ci si accorga finalmente come e dove si stanno spostando i punti di riferimento dell’economia e della politica mondiale.

Al Cairo per il Peacekeeping

con Hosni Mubarak

con Hosni Mubarak

Anche in questo caso con riferimento al Peacekeeping in Africa ma con allargamento ai principali temi politici (soprattutto il Medio Oriente) è stato il viaggio in Egitto, proprio nel giorno immediatamente precedente la tregua di Gaza.

Sui problemi tecnici del Peacekeeping e sul ruolo dell’Egitto si è concentrato l’incontro con il Ministro della Difesa Tantawi e con il Ministro per la Cooperazione Internazionale, Signora Aboulnaga. Si è invece parlato soprattutto di politica internazionale nel lungo e amichevole incontro con il Presidente Mubarak.

Indubbiamente, anche spinto da necessità di politica interna, il Presidente Mubarak è riuscito ad organizzare una tregua che, se anche non potrà dare pace duratura al Medio Oriente, ha però il grande merito di porre termine al tragico elenco di vittime dei bombardamenti di Gaza.

Infine in Messico

con Gonzales, Lagos e Sanguinetti

con Gonzales, Lagos e Sanguinetti

Diversa è stata la motivazione del viaggio in Messico, dove sono stato invitato dal Senato messicano a partecipare al dialogo fra le forze politiche e sociali per riflettere e formulare rimedi riguardo alle conseguenze della crisi economica mondiale sul Paese.

Questo lungo “dialogo” è stato preceduto da un seminario a cui ho partecipato insieme all’ex Primo Ministro Spagnolo Felipe Gonzales e agli ex Presidenti della Repubblica del Cile Lagos e dell’Uruguay Sanguinetti.

Il dibattito si è concentrato sulla politica necessaria per diversificare l’export del Paese (ora per oltre l’80% verso gli Stati Uniti) e sugli strumenti da adottare per fare riprendere gli investimenti ora in grandissima crisi.

Alle analisi economiche si è affiancato l’esame delle conseguenze di una criminalità diffusa, che è arrivata a produrre 6.270 morti solo nel corso del 2008.

con Calderon

con Calderon

Su questi temi si sono concentrati anche gli incontri con il Presidente della Repubblica Calderon e con i massimi rappresentanti dei tre maggiori partiti rappresentati in Parlamento, cioè il Partito di Azione Nazionale (PAN), il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) e il Partito della Rivoluzione Democratica (PRD).

Con i rappresentanti di numerose Associazioni non Governative e negli incontri all’Università Iberoamericana di Puebla (gestita dai gesuiti) e all’Università Statale di Città del Messico l’interesse è stato soprattutto sulle Piccole e Medie Imprese Italiane, sulla politica per lo sviluppo e la lotta alla criminalità nel Mezzogiorno e, soprattutto, sull’esperienza politica dell’Ulivo, alla quale è dedicato (da tutte le categorie incontrate) un particolare interesse.

Non è stato sempre agevole spiegare a tanti appassionati osservatori perché l’Ulivo sia prematuramente appassito.

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7

Feb

Per superare la crisi riscopriamo (e rinnoviamo) il vecchio modello europeo

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo
la soluzione americana...

la soluzione americana...

Crisi, riflessioni dopo Davos

GLI SPOT DEL SUPERBOWL, LA SPERANZA EUROPEA

Intervento su Il Messaggero del 6 febbraio 2009

di Romano Prodi

IL DISASTRO dell`economia mondiale è così grande che, al vertice di Davos, perfino i no-global non sapevano che pesci prendere. Nonostante ì drammi causati dal crollo dell`economia erano infatti ben pochi a protestare. Le proteste, inoltre, non si rivolgevano verso le difficili decisioni da prendere o le spaventose ingiustizie da sanare, ma si concentravano nel contestare il fatto che a parlare di rimedi fossero soprattutto coloro che erano stati la causa della crisi.

Se questo avveniva nelle strade di Ginevra e Davos non minore era la confusione nei saloni dove si svolgevano i dibattiti e le discussioni. Tre sentimenti sono tuttavia emersi sopra tutti- gli altri nei giorni dì Davos, cioè un sentimento di paura, uno di imbarazzo e uno di speranza.

Il sentimento di paura è quello del protezionismo. Non solo il protezionismo sul commercio dei beni, ma anche riguardo alla circolazione dei capitali e alla mobilità della mano d`opera. Ed è una paura giustificata perché gli americani minacciano misure contro le importazioni (una sorta di “buy american“), i francesi sembrano orientarsi verso una politica di aiuti limitata alle imprese nazionali, e gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
Quanto al mondo del lavoro, come sta avvenendo in Gran Bretagna, la politica contro gli operai stranieri sta raggiungendo ovunque elevatissimi livelli di popolarità,  se perfino un ministro del Governo italiano ha dichiarato che i lavoratori inglesi sono un modello a cui ispirarsi. Se questo processo non viene arrestato da un coordinamento delle politiche di tutti i grande Paesi, non solo la crisi si aggraverà ma ne usciremo fuori solo fra moltissimi anni.

Il secondo sentimento (di imbarazzo) riguarda il nuovo ruolo che i governi stanno assumendo nella vita economica mondiale per effetto di anni di errori politici e di mancanze etiche. Dal punto di vista politico troppi pensavano (o tentavano di farci credere) che il mercato da solo è sempre capace di riequilibrare il sistema economico e di correggerne gli errori. Per coloro che avevano seguito questa dottrina giudicandola infallibile è infatti imbarazzante dover ammettere la necessità di un massiccio intervento dello Stato per impedire che le banche (e di conseguenza le imprese) crollino come castelli di carta. L`allargamento dell`intervento pubblico appare quasi la soluzione di ogni problema.  Siamo ormai arrivati all`assurdo che proprio coloro che in passato avevano sostenuto necessario il ruolo dello stato come arbitro autorevole e severo del quadro economico debbano ora adoperarsi perché  l`intervento pubblico non diventi troppo  pesante e non pregiudichi il necessario funzionamento del mercato. Essere arbitro autorevole e severo significa oggi applicare regole e comportamenti etici che sono stati ignorati o calpestati nei passati due decenni.
Non esiste infatti un`economia senza regole e senza la forza di chi le faccia rispettare.

Il terzo sentimento (quello di speranza) riguarda il ruolo futuro dell`Europa.
Un`Europa che era nata non solo per creare sviluppo, ma anche per costruire una politica di maggiore equilibrio fra Paesi ricchi e Paesi poveri e per dare un minimo di sicurezza a tutti i propri cittadini, anche e soprattutto nei momenti di difficoltà.
Un`Europa che è nata per promuovere il mercato ma anche per proteggere i cittadini dalle suemancanze e dai suoi errori .
Un`Europa in cui Stato e mercato giocano un ruolo distinto macomplementare e sono entrambi sottomessi a precise regole e in cui la protezione dei più deboli nei momenti di difficoltà non deriva dalla carità o da buoni sentimenti, ma da obblighi di comportamento collettivo e dal riconoscimento dei diritti delle persone.
Nel primo dopoguerra per definire il modello europeo, si usava la definizione di “economia sociale di mercato”.
È una terminologia un po` antica ma che rende bene l`idea della direzione da tenere in questo momento critico e del ruolo di equilibrio che l`Europa potrà e dovrà svolgere nel mondo.
Vorrei concludere con una riflessione finale che non mi appare inappropriata.

Pochi giorni fa si è svolto negli Stati Uniti il famoso “Superbowl” l`avvenimento sportivo più seguito da tutti gli americani.
Basti pensare che i telespettatori sono solitamente superiori di numero rispetto agli americani che si recano a votare alle elezioni presidenziali. Potete immaginare quale cifra astronomica costino gli spot pubblicitari durante questo avvenimento.
Ebbene i telespettatori si sono trovati di fronte a uno spazio pubblicitario (chiamato cash for gold) che offriva “la migliore valutazione” ai milioni di cittadini che erano costretti a vendere gli anelli o le collane d`oro per potere tirare avanti.
Mentre un`altra pubblicità prometteva di restituire il prezzo di acquisto di un`automobile a chi fosse successivamente rimasto disoccupato. Sono questi gli aggiustamenti che noi affidiamo al mercato?
lo penso di no.

Penso perciò che valga la pena di riprendere in esame e riscoprire (rinnovandolo) il vecchio modello europeo.

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18

Jan

Le divisioni del mondo arabo non aiutano la pace ma possono provocare un conflitto inarrestabile.

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Intervento su Il Messaggero del 17 gennaio 2009

di Romano Prodi

SI PARLA di una imminente tregua a Gaza. Se ne parla con ottimismo e speranza ma la si invoca anche per necessità.

L’Egitto, grande e infaticabile mediatore, si trova infatti in una posizione sempre più scomoda e difficile. Da un lato, soprattutto negli ultimi tempi, non nasconde il suo distacco e la sua irritazione nei confronti di Hamas e, dall’altro, non può nemmeno nascondere la grande preoccupazione per l’effetto che i bombardamenti a Gaza, producono sull’opinione pubblica, non solo egiziana ma di tutti i Paesi arabi.

Nonostante il fermo controllo sui mass media esercitato dall’esercito israeliano, le reti televisive più seguite nel mondo arabo continuano infatti a mostrare all’opinione pubblica le tragiche scene delle scuole colpite, dei bambini uccisi e degli ospedali sempre meno in grado di curare i feriti.

La preoccupazione e la fretta dell’Egitto sono aumentate ulteriormente dopo il vertice di Doha (in Qatar) nel quale la presenza del leader della parte più estremista di Hamas (quella che risiede a Damasco ed è capeggiata dallo sceicco Khaled Meshaal) ha spinto i Paesi presenti verso posizioni sempre più dure ed intransigenti.

Il ragionato ottimismo che tre giorni fa il presidente egiziano mi esprimeva riguardo a una possibile tregua, doveva essere perciò tradotto in azione nel più breve tempo possibile. Questa è la ragione per cui è stato convocato con la massima urgenza il vertice di Sharm el Sheikh, vertice assolutamente necessario per porre termine alla tragedia di Gaza prima che tutto il vicino Oriente si infiammasse.

Non nascondiamo però il rischio contenuto nella convocazione di questo vertice di cui non sappiamo ancora definitivamente quale sarà il livello di partecipazione, anche se ci auguriamo che sia più ampio ed elevato possibile, proprio per la grandezza dei problemi che deve affrontare. La nostra speranza per il successo di questo vertice non può né deve nasconderne i limiti e soprattutto i problemi che lascerà in ogni caso aperti. La necessità che tutti i partecipanti avranno di giungere ad un accordo il più rapidamente possibile renderà infatti difficile una decisione efficace riguardo alla costituzione di una “forza di interposizione” capace da un lato di controllare il traffico di armi fra l’Egitto e Gaza, ma capace anche di permettere il flusso di merci di cui la città assediata ha necessità, flusso che negli ultimi mesi è arrivato con sempre maggiore difficoltà, imponendo penosi sacrifici a tutta la popolazione.

Ancora più complicato appare soprattutto il cammino verso una pace stabile e una “soluzione politica” del problema palestinese. La “guerra di Gaza” ha infatti radicalizzato ancora di più le posizioni, ha aumentato la spaccatura non solo fra Israele e la Palestina, ma anche all’interno dei palestinesi e, quello che è più grave, tra i diversi Paesi arabi.

C’è chi pensa, seguendo il vecchio principio del “divide et impera” che una ulteriore divisione tra i Paesi arabi possa facilitare la pace definitiva in Medio Oriente. Nulla è più sbagliato di questa ipotesi.
Stando in Medio Oriente si deve infatti convenire che, in tempi nei quali da un lato incombe la minaccia del terrorismo e dall’altro la diffusione dei media è capace di infiammare in un attimo l’opinione pubblica, le crescenti divisioni del mondo arabo non sono in alcun modo un aiuto alla pace ma, all’opposto, rendono sempre più facile lo scoppio di un conflitto inarrestabile.

E l’esperienza ci dimostra che non sono certo le liti fra i Paesi arabi a garantire la sicurezza di Israele. É necessario perciò che le cosiddette grandi potenze tengano ben presente questo fatto e rifuggano dalla tentazione di ripetere il vecchio gioco che troppo volte ha innescato tensioni e guerre. Nel ribadire la calda ma non scontata speranza che l’incontro di oggi a Sharm el Sheikh ponga finalmente fine alla guerra di Gaza, non facciamoci illusioni sulla definitività e la stabilità di questa tregua.

Le cose in ogni caso partiranno da una situazione peggiore di quella di un mese fa. Ci auguriamo perciò che il nuovo presidente degli Stati Uniti, con lo stesso realismo di cui ha dato prova nella formazione del suo governo, sia capace di dare concretezza e significato al concetto di “dialogo  che ha ripetutamente posto alla base della sua futura politica estera. Dialogo e “divide et impera” non sembrano infatti essere concetti fra di loro compatibili. Anche se in politica tutto è possibile.

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23

Dec

Il mio lavoro per la pace in Africa

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Cari amiche e cari amici,

siamo ormai prossimi alle feste natalizie e alla fine del 2008. Innanzitutto i miei auguri per un Natale sereno e per l’anno nuovo affinche’ le difficolta’ del presente non cancellino la speranza.

La fine dell’anno coincide anche con il termine che il Consiglio di sicurezza dell’Onu – su proposta del segretario Ban Ki Moon – aveva posto al lavoro della Commissione speciale Unione Africana-Nazioni Unite da me presieduta per indicare e valutare le possibilita’ di supporto alle operazioni di peacekeeping in Africa da parte della Comunita’ internazionale.

Sono stati mesi di lavoro intenso, condotto non solo presso la sede generale dell’Onu a New York ma anche ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia e sede dell’Unione Africana e in giro per il mondo visitando i rappresentanti dei paesi piu’ interessati a favorire la diffusione della pace nel continente africano.

Lo spirito che mi ha guidato e’ lo stesso che ispira la nostra Fondazione: il valore del dialogo, della pace, della cooperazione con l’obiettivo da perseguire tenacemente: la difesa del bene comune, di tutti gli individui, a maggior ragione nelle zone e nei paesi più in difficolta’.

Per darvi un’idea dello spirito del nostro impiegno, di seguito vi invio alcuni passaggi della prefazione al rapporto finale consegnato lo scorso 12 dicembre al vertici ONU:

« Non c’e’ pace ancora in tante parti dell’Africa. Dal Corno d’Africa ai grandi laghi fino alle regioni piu’ occidentali i conflitti hanno ormai un carattere endemico. Nuove minacce continuano a minare la stabilita’ politica sebbene nel recente passato ci siano stati progressi sia nel cammino verso la pace che nella crescita economica.

Il costo del conflitto si manifesta in milioni di morti. Per di piu’ l’insicurezza generale blocca lo sviluppo economico creando allo stesso tempo un notevole carico finanziario sulle spalle della comunita’ internazionale.

I problemi della distruzione delle infrastrutture, le minacce ambientali, i grandi trasferimenti, le malattie testimoniano che le conseguenze dei conflitti sono piu’ dannose e durature del conflitto stesso.

Sebbene questo non sia un problema solo africano, in Africa e’ sentito in maniera piu’ acuta.

Inoltre in Africa il numero e la portata delle problematiche indicano che non attirano l’attenzione che meriterebbero. Conseguentemente molti tentativi della comunita’ internazionale di combattere la poverta’ spesso non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati, un problema peggiorato poi da altre questioni, come la mancanza di governance efficaci, la corruzione, protezioni politiche, educazione trascurata, oltre ad un sistema sanitario e di servizi sociali inadeguato che perpetua un circolo vizioso di poverta’ e violenza.

Sebbene lo sforzo militare puo’ essere parte di una potenziale soluzione, la pace nel continente africano non puo’ essere raggiunto soltanto attraverso l’impiego di forze militari.

E’ necessario avviare strategie a lungo termine a livello continentale, nazionale ma soprattutto locale che supporti gli sforzi dei leader politici nello sviluppo di governance efficaci e nello sviluppo della stabilità essenziale. Solo allora si potranno incontrare i bisogni della gente e fermare definitivamente il circuito impazzito della violenza ».

Ora sara’ il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad esaminare il rapporto e trarre le dovute conseguenze.

Quanto a me e al gruppo di esperti che ho avuto il privilegio di guidare desidero solo sottolineare lo spirito che ci ha guidati fin qui. Come detto, e’ lo stesso della Fondazione che presiedo e nei confronti della quale avete manifestato interesse. La mia speranza e’ dare un contributo al processo di pace nel mondo. Una responsabilita’ a cui non si puo’ sfuggire.

Grazie di esserci.

Buon natale a tutti!

Romano Prodi

www.romanoprodi.it

www.fondazionepopoli.org

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15

Dec

Parole di Politica

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

da HOPE – n.15 – Dicembre 2008

Mi è stato chiesto di riflettere sul rapporto tra la parola e la politica, e cioè di dire la mia su un tema immenso e quasi smisurato. Confesso che non ce la faccio proprio ad affrontarlo tutto intero, con tutte le sue infinite implicazioni. Mi limiterò quindi a ragionare su un solo aspetto del rapporto fra la parola e la politica e cioè sulla parola come strumento di conquista del consenso politico. Per essere ancora più preciso sulla parola nella campagna elettorale. Sotto molti aspetti si può affermare che, almeno negli ultimi duemila anni, nulla è cambiato nell’uso della parola per convincere gli elettori. Ma poi, guardando bene dentro alle cose, possiamo invece affermare che tutto è cambiato.

Cerchiamo di divertirci un poco partendo da due documenti di duemila anni fa per poi passare direttamente a oggi.

Il primo documento è un vero e proprio manuale scritto da Quinto Tullio Cicerone per aiutare il più illustre fratello Marco Tullio durante la campagna elettorale per il consolato nel 63 avanti Cristo. Un documento raffinato ma anche estremamente semplice su cosa bisogna fare ma, soprattutto, su cosa bisogna dire per conquistare la fiducia degli elettori (Quinto Tullio Cicerone, Manualetto di campagna elettorale, Ed. Salerno, Roma, 2006)..

Di insegnamenti che oggi potremmo chiamare “politicamente corretti” ne leggiamo ben pochi. La parola è ritenuta un semplice strumento per convincere gli elettori e, perciò, ogni parola, ogni promessa è lecita, purché raggiunga il suo scopo. La conquista del voto dipende dalla promessa di benefici, dalla speranza e, anche, dalla simpatia che si riesce a suscitare in coloro che debbono depositare il loro voto nelle urne. La parola deve perciò essere esclusivamente dedicata a raggiungere questi tre obiettivi.

Tutto il manuale elettorale è perciò dedicato a come promettere, a come creare speranze e simpatia, con qualsiasi strumento. E per raggiungere questo obiettivo tutto è lecito, a partire dalla simulazione, per cui il candidato non dovrà limitarsi a pronunciare solo le parole gradite ai suoi interlocutori, ma dovrà anche accompagnare alle parole le espressioni del volto e gli atteggiamenti che più saranno in grado di costruire consenso attorno alla propria persona.

Il raffinato manuale non si limita tuttavia a questo e, come succede nelle migliori famiglie, si dedica accuratamente ad elencare gli strumenti di denigrazione da usare nei confronti degli avversari politici. Antonio e Catilina debbono essere perciò attaccati nel modo più violento possibile, calcando la mano sui loro debiti, le amicizie dubbie, lo sperpero del denaro, il lusso, la lussuria e tutti i vizi di cui si può macchiare un essere umano. Si adombrano anche ipotesi (non ben confermate) di delitti e di nefandezze che, certamente, possono colpire l’immagine degli elettori.

Un manuale completo, metodico e raffinato per un politico raffinato che, chiamandosi Cicerone sa, più di ogni altro, fare buon uso della parola. Il secondo documento a cui voglio riferirmi, ci porta di fronte ad una realtà radicalmente più popolare, riguardo alla quale vengono usate parole semplici, dirette al popolo minuto, per una gara elettorale di livello locale. Mi riferisco alle divertentissime e semplici scritture murali di propaganda elettorale che ancora oggi si possono leggere sui muri di Pompei. Parole che il Vesuvio ha portato direttamente a noi. “I fruttivendoli chiedono di votare per Marco Cerinio”. E tante altri scritti in favore del candidato degli osti, dei professori, dei mulattieri o degli abitanti dei diversi quartieri. Nessuna raffinata motivazione: al massimo il candidato viene definito virtuoso, meritevole e capace di interpretare gli interessi della collettività. Parole semplici, che vengono ripetute migliaia di volte sui muri di tutta Pompei: basta pensare che più di mille di questi “murales” ante-litteram sono arrivati fino a noi.

In fondo analizzando questi due diversi esempi di espressione politica, si potrebbe concludere che, riguardo all’uso della parola, non vi è nulla di nuovo rispetto alle campagne elettorali di oggi: allora come oggi si usavano parole semplici per le persone semplici e parole raffinate per convincere gli elettori di livello più elevato. Le similitudini sono evidentemente molte perché anche oggi la parola nelle campagne elettorali è usata per creare promesse, speranze, simpatie e, soprattutto, per denigrare gli avversari. E, oggi come allora, non vengono dedicate molte energie perché queste parole siano fra di loro coerenti e, complessivamente veritiere.

Le similitudini, però, si fermano qui perché la parola, nelle campagne elettorali moderne, viene accompagnata da strumenti che la rendono infinitamente più potente ed efficace rispetto a quanto avveniva in passato. Il primo strumento è la moltiplicazione in modo diretto ed indiretto della sua intensità attraverso i moderni canali di comunicazione. Ed in questi canali il modo indiretto prevale ormai sulla parola stessa. Un moderno manuale di campagna elettorale non solo non potrebbe mai contenere le scritte ingenue e dirette dei muri di Pompei ma non potrebbe nemmeno accontentarsi dei complessi insegnamenti del fratello minore di Cicerone. L’attacco diretto all’avversario si rivolgerebbe facilmente contro a chi lo pronuncia. Occorre qualcosa di più complesso: uno screditamento generale dell’avversario e di tutto quello che gli sta attorno. Una demolizione progressiva della sua personalità, un feroce uso del ridicolo: il tutto possibilmente in modo obliquo, nel quale il linguaggio del candidato è sempre accompagnato dagli echi presunti o reali degli effetti delle sue parole sugli elettori. Non basta la parola ma occorre dimostrare che essa ha prodotto effetti devastanti sugli avversari. Alla parola si accompagnano perciò le indagini demoscopiche e gli “opinion polls”. Essi non servono solo a mettere in luce la forza del “nostro candidato”, ma ci abituano a modificare e ad adattare le parole che verranno pronunciate successivamente agli effetti delle parole precedenti, che appunto emergono dalle indagini e dagli “opinion polls”. La parola diventa quindi non solo strumentale ma sempre più provvisoria, in attesa di essere modificata a seconda delle reazioni che la parola precedente ha provocato. Viviamo cioè nel continuo inseguimento fra la parola ed il suo eco. E l’eco diventa più importante della parola stessa.

Questo gioco fra la parola e il suo eco diventa così rapido che il cittadino, cioè l’elettore finisce con l’essere così stordito, da non capire più il significato delle parole stesse. Lo stordimento è tale che si perde una condizione indispensabile perché la parola sia efficace, e cioè la memoria. E senza la memoria diventa impossibile giudicare l’aspetto più importante della parola, e cioè la sua coerenza.

Il martellamento diretto ed indiretto dei media raggiunge infatti dimensioni e ritmi tali per cui diventa sempre più difficile costruire i legami e i collegamenti che permettono alla parola di conservare il suo contenuto espressivo. Se è quindi vero che l’uso della parola nella campagna elettorale non sembra offrire novità radicali rispetto a duemila anni fa, esso è oggi totalmente diverso per effetto della presenza sempre più pervasiva del sistema dei media.

L’eccesso di parole e il modo con cui questo eccesso viene gestito rende incomprensibile la realtà sottostante e rende sempre più difficile distinguere questa realtà dalla mistificazione.

Il processo è andato così avanti per cui molti si chiedono se questo non mette addirittura a rischio la vita della democrazia stessa.

Io credo che questo processo di deterioramento stia procedendo in modo quasi inarrestabile e che sia perciò necessario ed urgente adottare importanti misure correttive.

La democrazia, per funzionare, richiede infatti una presenza equilibrata della parola e dell’ascolto.

Questo obiettivo non è però raggiungibile senza un uso misurato ed equilibrato dei media che trasportano ed amplificano la parola fino a falsarne completamente l’ascolto.

Senza equilibrio e senza misura la parola non può arrivare né al cuore né al cervello. E se non vi arriva non dobbiamo stupirci se la democrazia si inaridisce e i cittadini diventano sempre più scettici e rabbiosi.

Romano Prodi

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