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26

Nov

La crisi finanziaria e le conseguenze politiche globali

Inserito da admin  - Pubblicato in Internazionale

Dipartimento Internazionale del CC del PCC – Pechino, 26 novembre 2008

La crisi finanziaria e le conseguenze politiche globali

Lecture of President Romano Prodi

(Notice for the reader: lecturing the audience, president Prodi has not read this note)

– Siamo quasi certamente di fronte alla più grave crisi economica del dopoguerra. Spesso si paragona ciò che sta succedendo oggi con quello che accadde in altri momenti di crisi e in particolare con la crisi del 1929 che causò un impoverimento globale che durò diversi anni. Ogni crisi in realtà ha caratteristiche proprie (così come le politiche per reagire ad essa) e questa non fa eccezione. Tuttavia, se non si analizzano profondamente le cause e le dimensioni specifiche di questa crisi, non si può trovare una soluzione.

– La crisi del 1929 partì dal crollo azionario di Wall Street del mese di ottobre ma le cause reali scatenate da diversi fattori sia finanziari (un sistema bancario inefficiente, un eccessivo ricorso a prestiti “speculativi” e un corso delle azioni che non corrispondeva più ai valori reali e prospettici delle imprese) sia reali (eccesso di investimenti e di produzione in alcuni settori). Il crollo azionario fece diminuire il potere di acquisto della popolazione e spinse le banche a chiedere il rientro dei prestiti effettuati. Tutto questo acuì la crisi e la rese globale. La crisi durò molti anni anche perché le autorità nazionali ci misero molto tempo per capirne la portata, perché vi erano fortissime resistenze ad ogni forma d’intervento pubblico e perché non vi erano istituzioni internazionali in grado di gestire un fenomeno che forse per la prima volta era realmente globale.

– Ma fu proprio dall’intervento pubblico che economie cominciarono a riprendersi. Le politiche che portarono le economie mondiali fuori dalla recessione furono improntate ad un forte intervento statale che si sostanziava in spesa in deficit (e crescita del debito pubblico), come accadde negli US sotto il presidente Roosevelt, ma anche nel sostegno all’industria pesante nazionale e militare come fece Hitler in Germania. Insomma in alcune delle politiche per uscire dalla crisi del ’29 vi era sia lo strumento di uscita dalle crisi economiche sia il germe che porterà alla seconda guerra mondiale.

– In sostanza la crisi del 1929 nasce sui mercati ed è una crisi prettamente “privata” nelle sue cause dove il pubblico ha un ruolo marginale ed il ruolo pubblico è importante non nell’entrata ma nell’uscita dalla crisi.

– Oggi la situazione è almeno in parte diversa. Tutti i governi sono pienamente consapevoli di trovarsi in un momento di crisi anche se ancora oggi non sanno quanto la crisi dei mercati “costi” all’economia globale sia finanziaria sia reale legata ai mutui sub prime. E non sanno nemmeno se e quando entreranno in crisi altri “pezzi” del sistema finanziario, come ad esempio le Carte di credito e, più in generale, gli strumenti del credito al consumo.

– La caratteristica di questa crisi non è infatti l’esistenza di differenti interpretazioni sulle sue cause, ma l’incertezza assoluto sulle sue dimensioni quantitative. Nessuno sa fin dove questa crisi si estende. Nessuno ne conosce gli aspetti quantitativi.

– I mercati finanziari globalizzati hanno fatto si che la propagazione della crisi sia stata molto più veloce che nel 1929. Tuttavia la presenza di istituzioni internazionali (anche se meno forti di quanto sarebbe auspicabile) e di un maggiore coordinamento tra i diversi paesi rende meno automatica la messa in atto di quelle politiche nazionali di protezione che causarono l’aggravamento della crisi del 1929.

Ulteriori riflessioni sul passato e sul presente.

– La crisi attuale ha paradossalmente una origine molto più “pubblica”, legata alle scelte di politica economica del Governo degli Stati Uniti e della Federal Reserve che ha mantenuto i tassi d’interesse artificialmente troppo bassi per lungo tempo, al fine di sostenere l’economia dopo lo scoppio della bolla legata ad Internet, e dopo gli eventi dell’11 settembre 2001. In alcuni periodi di tempo i tassi reali sono stati addirittura negativi. Ad essi si è aggiunta la diminuzione dei controlli sul funzionamento dei mercati finanziari. Particolare importanza hanno avuto a questo proposito le nuove regole, tra cui segnaliamo quelle che hanno abbattuto il muro che opportunamente divideva le banche d’affari dalle banche di credito ordinario.

– I tassi di interesse troppo bassi hanno creato un eccesso di liquidità che negli anni si è spostato la dove vi erano le possibilità di guadagno di breve periodo creando una serie continuativa di bolle speculative in vari settori (immobiliare, azionariato, materie prime, internet, ecc.).

– Tassi d’interesse già molto bassi, deregolamentazione ed innovazione finanziaria rendono oggi particolarmente deboli gli strumenti di politica economica “classici” utilizzati nel passato.

– In particolare alla prova dei fatti l’innovazione finanziaria che doveva servire a diminuire il rischio degli investimenti e quindi favorire la crescita ha causato la più grande crisi di fiducia degli ultimi decenni e ha fortemente aumentato la rischiosità dell’intera economia mondiale.

– L’innovazione finanziaria ha infatti distribuito grande parte del rischio sulle masse degli investitori ignari.

Come intervenire?

– C’è bisogno d’interventi sia a livello del singolo paese sia a livello internazionale. C’è bisogno di politiche ma anche di più profonde riforme istituzionali. C’è in sostanza bisogno di interventi che modifichino le strutture e interventi che modifichino i comportamenti. C’è bisogno di interventi di breve periodo per evitare che la crisi peggiori e si diffonda sempre più il panico ma c’è soprattutto bisogno di visione di lungo periodo.

– Bisogna resistere alle tentazioni di chiusura e protezionismo. Quest’aspetto sarà di grandissima importanza nei prossimi mesi, perché sempre di più i politici dei diversi paesi saranno spinti ad attribuire all’apertura dei mercati internazionali tutte le cause della crisi economica e finanziaria. A questa tendenza generale si aggiunge il fatto che Obama si era presentato di fronte agli elettori con una piattaforma sostanzialmente protezionista. È vero che, in questo campo anche i Presidenti precedenti si erano impegnati a proteggere l’industria nazionale, ma avevano poi operato in modo diverso, ma è anche vero che la crisi ha cambiato e sta cambiando l’opinione pubblica in modo profondo e generale. – La Globalizzazione è per me un valore, ma bisogna saperne contenere gli eccessi e proteggere chi si trova nelle posizioni più deboli, altrimenti sarà politicamente insostenibile.

Le istituzioni internazionali

– un mondo globalizzato ha bisogno di istituzioni internazionali forti sia per gli aspetti più legati alla politica sia per gli aspetti legati all’economia. In passato si è spinto più sull’economia e meno sulla politica ma questo squilibrio ha mostrato limiti evidenti. Mercati globali hanno bisogno di regole globali. Ovviamente i singoli paesi possono adottare provvedimenti specifici ma ci vuole una base comune.

– In primo luogo è necessario regolare fortemente l’utilizzo di derivati. Essi non solo hanno prodotto l’alterazione dei mercati che ci ha portato alla crisi, ma hanno anche esaltato le dimensioni della speculazione sul petrolio e sulle materie prime. Non è possibile che i derivati sulle materie prime siano stati in alcuni giorni di cento volte superiori rispetto al valore reale del bene trattato. È chiaro che questo discorso non riguarda la Cina ma è anche chiaro che la Cina deve avere un ruolo attivo nella gestione dell’economia mondiale e deve quindi avere la consapevolezza di agire in un contesto fortemente deteriorato da questi comportamenti.

– È ovvio che ogni economia ha bisogno di ricette specifiche (ad esempio è diverso il caso italiano dove è lo stato ad essere indebitato e quello spagnolo dove sono le famiglie) ma ci debbono essere alcuni progetti comuni.

– Ma quali politiche comuni di lungo periodo?

– In primo luogo l’energia e l’ambiente avranno una crescente importanza nel processo di riconversione e di ripresa dell’economia. Se si deve intervenire sostenendo l’offerta è necessario indirizzare la produzione verso prodotti maggiormente eco compatibili. C’è forse bisogno di simboli (auto elettrica, cellule fotovoltaiche, Biodiesel da colture che sfruttano terreni marginali) sapendo anche che questa riconversione può anche essere un’importante occasione di business.

– Questo settore è comunque capace di mobilitare una quantità di risorse enorme e diffusa non solo in tutti i continenti ma in tutte le aree, anche le più sperdute del mondo.

– In secondo luogo grandi progetti di ricerca e sviluppo soprattutto nei settori legati alla salute ed alla scienza della vita. Anche questi possono e debbono coinvolgere nel lungo periodo le energie diffuse non solo di alcuni grandi paesi, ma di tutto il mondo.

– Come abbiamo già specificato in precedenza, i modi e gli aspetti particolari delle politiche debbono essere decise dai diversi paesi, ma vi sono alcune grandi direzioni che debbono guidare l’azione di tutti noi.

– Non voglio tuttavia entrare negli aspetti particolare della politica di lungo periodo anche se questo è l’aspetto che più personalmente mi interessa, essendo io di professione Professore di Economia Industriale. Spero che troveremo in futuro qualche altra occasione per parlare di come agire nel lungo termine sull’economia reale per fare riprendere al mondo la via dello sviluppo.

– Ora vorrei fare alcune riflessioni sul ruolo che la Cina può svolgere in questa situazione così particolare.

– Voglio partire con l’affermazione che questa è forse la più grande occasione per l’Asia e la Cina in particolare per svolgere un ruolo centrale e positivo nell’economia globale. La Cina è ad oggi il più forte elemento di stabilità e crescita nell’economia mondiale anche perché è l’unico paese, insieme ai produttori di petrolio, che ha una importante liquidità disponibile per investimenti. Ma, a differenza di questi paesi, ha anche un grandissimo mercato interno.

– Ma ancora di più perché la Cina ha la possibilità di operare da sola o in cooperazione con le istituzioni internazionali, nella maggior parte dei paesi del mondo, sia nei paesi industrializzati che in quelli più poveri come i paesi del continente africano.

– Nell’intera storia economica mondiale la Cina di oggi è infatti l’unico caso di un paese che esporta contemporaneamente capitali, tecnologie e mano d’opera. Questa è una realtà senza precedenti, che attribuisce al Vostro paese grande potere ma anche grande responsabilità. In questo senso la responsabilità cinese è davvero unica e deve essere esercitata con un crescente livello di coinvolgimento in tutta la politica mondiale. Anche se l’autonomia della politica interna è un sacro principio della convivenza fra i popoli, i contatti sono ormai tali che diventa praticamente inevitabile una reciproca “interferenza” fra i diversi paesi. Ed è questa influenza che deve essere esercitata in modo consapevole.

– È quindi necessario un ruolo attivo della Cina anche sui grandi temi che saranno fondamentali per il futuro del mondo. Bisogna definire un percorso che accompagni il protocollo di Kyoto , tenendo presente che esso prevede linee di azione ancora imperfette.

– Nel dibattito sull’economia nelle ultime settimane, si parla sempre di più di “ritorno alla produzione” intendendo con questo un ritorno di importanza sia della produzione agricola che di quella industriale.

– Il “ritorno alla produzione” non sarà privo di conseguenze politiche anche nei paesi occidentali, in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e negli altri paesi ad elevato livello di sviluppo.

– Parlo di “ritorno alla produzione” non solo per la diffidenza sempre più diffusa nei confronti della finanza. Ma anche perché il crollo della domanda sta spingendo i governi non solo in aiuto del sistema bancario e finanziario, ma anche del sistema produttivo. – Il dibattito non è ancora concluso ma l’aumento della disoccupazione, soprattutto in aree politicamente sensibili, sta spingendo i governi a spostare risorse verso il sistema industriale. È lecito pensare che queste forze si faranno sentire anche in una fase più avanzata della crisi o dopo la crisi e si faranno sentire sia negli Stati Uniti che in Europa.

– In Europa questo sforzo di “ritorno all’industria” sarà diverso da paese a paese, perché estremamente diverso è già oggi il ruolo dell’industria nei differenti paesi europei.

– Negli ultimi due decenni abbiamo infatti assistito ad una concentrazione dell’industria soprattutto in una parte dell’Europa che trova il suo centro nella Germania e nell’Italia del Nord, mentre la parte che si è dedicata con assoluta prevalenza ai servizi vede il suo centro in Gran Bretagna ed Irlanda.

– Naturalmente sarà un’industria diversa molto attenta ai problemi dell’energia e dell’inquinamento (quindi diversa anche nelle automobili) e alla domanda in continuo aumento nei settori della salute e delle scienze della vita.

– Questa “grande correzione” dovrà essere accompagnata da un sostanziale riequilibrio tra risparmi e consumi. La grande crisi dimostra che lo squilibrio esistente oggi soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in molti paesi europei, non può prolungarsi nel futuro perché è fonte di enormi squilibri.

– Questo adattamento sarà perciò lungo e penoso e porterà conseguenza non solo di breve ma anche di lungo periodo riguardo alle importazioni di Stati Uniti ed Europa e quindi avrà notevole impatto anche sull’economia cinese.

– La crisi finanziaria in corso sta mettendo infatti in discussione la sostenibilità di squilibri fra le grandi aree economiche come quelli che si sono creati in questi anni.

– Le tentazioni protezionistiche non potranno che crescere con il ritorno di un ruolo centrale della produzione. Parlo di “tentazioni” perché una notevole parte dell’opinione pubblica di questi paesi è tuttora convinta che l’apertura dei mercati e il libero commercio internazionale portino alla fine più vantaggi che danni.

– È tuttavia molto probabile che su temi specifici, sui temi soprattutto legati all’ambiente e alla protezione sociale “social dumping”) si venga a creare una situazione politica diversa.

– Per essere più espliciti mentre non vedo probabile (anche se ancora possibile) un’adozione diffusa e generale di dazi doganali, vedo più probabile l’adozione di difese commerciali che traggono spunto dall’esistenza di costi addizionali dovuti alla difesa dell’ambiente e ad alcuni aspetti delle politiche del lavoro.

– È quindi utile (e forse necessaria) un’iniziativa da parte cinese su questi temi. Non tanto un impegno su obiettivi irraggiungibili, quanto un programma che in qualche modo accompagni il protocollo di Kyoto o le altre iniziative che verranno prese su questi temi.

– Questa è solo un esempio di come, soprattutto dopo la crisi finanziaria, i temi di carattere ambientale e sociale avranno crescente influenza in ambito economico.

– Vorrei ora terminare queste mie brevi riflessioni con alcune osservazioni specifiche nei rapporti fra la crisi economica e finanziaria in atto e il particolare ruolo che la Cina svolge o può svolgere. Prima di tutto occorre fare tesoro di un insegnamento riguardo al passato. Io credo profondamente nell’economia di mercato ma credo che il mercato funziona bene solo quando è oggetto di regole e di controlli severi e precisi.

– Se attualmente siamo caduti in una crisi di cui ancora non conosciamo gli aspetti quantitativi né la durata, è proprio perché negli ultimi dieci anni (soprattutto a partire dagli Stati Uniti) sono state allentate le regole e i controlli. Si potrà obiettare che in molti paesi le autorità di controllo si sono moltiplicate (controllo sulle banche, sulle assicurazioni, sulle borse, sui mercati finanziari, ecc.). ma proprio queste moltiplicazioni hanno reso i controlli meno efficaci, isolando e dividendo i vari mercati.

– Questi controlli, inoltre, hanno soprattutto mantenuto un carattere nazionale, mentre i mercati finanziari sono diventati mondiali. È quindi interesse di tutti operare per regole e sorveglianze più severe a livello internazionale. Non sarà una battaglia facile ma utile a tutta l’umanità.

– Io conservo personalmente l’esperienza della difficoltà di questa battaglia: quando ero Presidente della Commissione Europea e abbiamo prospettato direttive severe in materia, queste sono state impedite dall’opposizione di alcuni governi nazionali e dalle lobby di gruppi finanziari e bancari. Una comune azione efficace non solo dovrà aumentare il potere delle autorità di regolamentazione a livello internazionale ma dovrà nello stesso tempo:

a) impostare un’azione comune di controllo e regolamentazione dei mercati, ora sottratti ad ogni controllo.

b) Impedire comportamenti speculativi alle banche di deposito ordinario.

c) Limitare, con un’organica serie di strumenti di trasparenza e fiscali, l’esplosione dei così detti “derivati”.

d) Stabilire regole per il mercato delle ipoteche.

e) Imporre rigorosi criteri di comportamento alle agenzie di “rating”

– Queste azioni si debbono aggiungere alle decisioni che la maggior parte dei governi ha preso per immettere risorse pubbliche nel sistema economico e vincere quindi la paura che ha colpito l’economia mondiale nelle scorse settimane.

– Insisto sul fatto che le misure prese vanno nella giusta direzione, ma non sono certo sicuro che queste misure siano sufficienti perché non abbiamo ancora un quadro quantitativo preciso e credibile della dimensione della crisi.

– Se sarà vinta la paura occorrerà molto tempo e molto spirito di collaborazione per guarire un sistema economico internazionale fondato sul debito cresciuto a dismisura e caratterizzato da un crollo del risparmio sia pubblico che privato.

– In questo quadro il ruolo dell’Asia e della Cina appaiono determinanti e non solo perché l’Asia è uno dei pilastri della produzione manifatturiera di cui abbiamo parlato in precedenza.

– L’aspetto più importante è infatti quello che l’Asia è ora il principale sottoscrittore del debito pubblico degli Stati Uniti.

– Oltre il 40% dei 2600 Miliardi di debito degli Stati Uniti è stato infatti sottoscritto dai paesi asiatici. E di questo una cifra di circa 573 M$ da parte del Giappone e 585 M$ da parte della Cina.

– E questo senza contare gli investimenti in altre società americane (es. Freddie Mac e Fannie Mae). È importante sottolineare come gli acquisti cinesi siano proseguiti anche nell’ultimo mese. Io interpreto questo atteggiamento consapevole e responsabile come un corretto modo del governo cinese per inserirsi tra i grandi decisori della governance mondiale.

– Il mondo (occidentale e non solo occidentale) non può fare a meno, nell’attuale crisi economica della domanda cinese, degli investimenti cinesi e delle risorse finanziarie cinesi.

– Capacità produttiva industriale e alto tasso di risparmio fanno della Cina uno dei pilastri fondamentali per uscire dalla crisi con un nuovo e duraturo equilibrio. Grande potere e grande responsabilità si sommano quindi nel futuro delle Vostre decisioni politiche.

– Alla luce di questi dati e della necessità di perseguire un nuovo equilibrio mondiale, vanno valutate le recenti decisioni prese dal Governo Cinese di rilanciare l’economia interna alla vigilia del Vertice dei G20.

– Di fronte alla diminuzione del tasso di sviluppo dell’economia (9% di crescita del PIL di fronte al 10,4% del trimestre precedente) è stato deciso un piano di rilancio di 580 Miliardi di dollari nei settori dell’edilizia residenziale, dei lavori pubblici, dell’energia, dei trasporti, della sanità, dell’istruzione e di rilancio delle attività produttive sia tramite incentivi alla ricerca e all’investimento che attraverso incentivi fiscali.

– A questo si aggiungono gli aumenti ai sussidi agricoli, ai salari e alle pensioni.

– Dato il basso debito pubblico e i 2000 miliardi di riserve valutarie questo piano di rafforzamento della domanda interna cinese appare realistico e sostenibile e sarà di grande utilità all’economia mondiale e all’economia cinese. Esso potrà infatti mantenere un elevato tasso di sviluppo all’industria manifatturiera che ha visto calare le proprie prospettive di esportazione per effetto della crisi dei mercati mondiali.

– Una crisi che probabilmente avrà anche sulla Cina un’influenza maggiore rispetto a quanto fino ad ora ipotizzato.

– Questo piano ha dimensioni davvero cospicue, è accompagnato da politiche monetarie espansive e avrà conseguenze positive nel breve e nel lungo periodo. Naturalmente come tutte le decisioni che segnano cambiamenti radicali, il suo effetto sarà tanto più efficace quanto più rapida sarà la sua realizzazione.

– In ogni caso l’economia cinese sta cambiando gli equilibri mondiali con la stessa forza con cui gli Stati Uniti ci hanno cambiato nel secolo scorso.

– Per questo motivo il mondo ha bisogno di una Cina stabile e cooperativa.

– Un’ultima riflessione.

– Noi ci incontriamo qui nel momento in cui la crisi ancora è in espansione e, ancora, i suoi confini non sono ancora ben chiari.

– Di fronte a questi sconvolgimenti non possiamo non farci la domanda che i politici e gli economisti si facevano durante la grande crisi del 1929.

– E la mia risposta, non si discosta da quella che diede Keynes in una conferenza tenuta a Madrid nel 1930 e che cioè, nonostante il pessimismo dei conservatori (che pensano che la crisi sia il preludio della fine) e il pessimismo dei rivoluzionari (che pensano che tutto debba finire perché il mondo è profondamente ingiusto) la nostra società abbia grandi risorse (scientifiche, tecnologiche e morali) per riprendersi e ricominciare a camminare in avanti.

– Ritengo cioè che il mondo abbia ancora tante energie sane, per cui questa crisi (come diceva allora Keynes) non è una malattia di vecchiaia dell’umanità, ma solo un disturbo di crescita.

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18

Nov

(English) What will happen in Europe?

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in English.

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4

Nov

Come scegliere un presidente in modo democratico ma un po’ bizzarro.

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Il Messaggero – 4 novembre 2008 –

Mentre scrivo milioni di americani in una normale giornata di lavoro stanno andando ordinatamente a votare. A causa del differente fuso orario i pazienti lettori leggeranno però queste brevi note quando già sarà conosciuto il nome del vincitore.

Pochi però conoscono il modo con cui gli americani lo hanno scelto. Si tratta di un modo perfettamente democratico, ma , a mio avviso, un po’ bizzarro.

Prima di tutto perché quasi trenta milioni di persone hanno già votato, e molti di questi da parecchi giorni.

Non solo con il voto per corrispondenza da parte di quelli che si ritrovano lontano dalla residenza abituale, ma anche da normali cittadini nei normali seggi elettorali nei molti stati nei quali è ammesso il voto anticipato. Usanza un po’ bizzarra, almeno per noi che siamo abituati a sciamare verso i seggi tutti insieme. Ma anche un po’ pericolosa se si dovesse verificare qualche grande avvenimento nei molti giorni che passano tra il primo e ultimo voto.

Ha fatto anche discutere il caso della nonna di Obama morta qualche giorno dopo aver votato. Il suo voto è valido. Ma dei trenta milioni di americani che hanno già votato nelle scorse settimane quanti saranno i voti di morti nel frattempo?

L’aspetto bizzarro non finisce però sulla soglia del seggio perché, dentro la cabina, gli elettori si trova di fronte a una varietà di sistemi di voto. Voto elettronico, voto con schede perforate,voto con punzoni e ,chi più ne ha, più ne metta.

Questi sistemi di voto e queste diversità hanno creato non poche contestazioni e gravissime tensioni nelle scorse elezioni (come in Florida). E dopo le tensioni discussioni a non finire.

Ma a conclusione di tante discussioni, l’opinione che sembra ora prevalere è quella di ritornare al passato come già si sta facendo oggi anche in molti seggi della Virginia, del New Jersey e dell’Ohio dove le ‘macchine’ si sono rotte. Tornare a votare, cioè, con la vecchia matita e la vecchia scheda elettorale.

Almeno in questo campo noi italiani possiamo dire di essere sempre stati all’avanguardia.

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3

Nov

La razza, la democrazia e quella signora che ha paura

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Il Messaggero – 3 novembre 2008 –

Il Taccuino Americano del Professore – Qui, negli Stati Uniti, tutti gli analisti politici danno Obama come vincitore. Ma poi essi stessi chiedono, quasi increduli, se un Paese può cambiare così rapidamente la sua storia e dimenticare le sue divisioni.

La razza, fino a pochissimo tempo fa, era la frattura insanabile dell’America, la bomba ad orologeria per il suo futuro. Oggi un candidato nero è il più probabile presidente degli Stati Uniti.

Indipendentemente dal risultato elettorale, questio solo fatto è la dimostrazione della capacità di cambiamento della società americana. Dopo anni di progressivo isolamento sono gli americani stessi a voler offrire al mondo un volto nuovo. Una faccia che, per la sua diversità col passato, presenta anche l’immagine di una nuova america.

Questa campagna elettorale è quindi già di per se stessa un cambiamento radicale. Anche se ho ancora impressa l’immagine di una signora che stamattina, davanti alle telecamere, ripeteva con insistenza: «Ho sempre votato democratico, mi piacciono le idee di Obama, ma Obama mi fa paura!».

I cambiamenti non sono facili, né per i Paesi né per le persone. Ma la grandezza della democrazia è proprio quella di sapersi rigenerare dall’interno.

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30

Oct

La vera sfida dell’America in un mondo multipolare

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Il Messaggero – 30 ottobre 2008

Oltre la battaglia elettorale La vera sfida dell’America in un mondo multipolare

Gli avvenimenti politici ed economici internazionali si susseguono con una tale rapidità da non lasciarci il tempo per riflettere su di essi. Finiamo di conseguenza con l’essere vittime di emozioni che tutto frammentano e nulla spiegano.

Nell’estate scorsa ad esempio è stato vissuto in modo prevalentemente emotivo anche il caso della Georgia, come se esso fosse nato dal nulla, mentre era frutto di una serie di eventi, di mosse e di reazioni che risalgono ben lontano nel tempo.

Per anni, dopo la caduta dell’impero sovietico, si era infatti pensato che il mondo sarebbe stato dominato, per tutto il prevedibile futuro, dalla sola potenza militare americana. Non che la supremazia americana potesse o possa essere messa in dubbio, ma molti osservatori andavano ben oltre, pensando che gli Stati Uniti potessero da soli governare tutto il mondo. D’altre parte l’11 settembre aveva spinto la grande maggioranza degli americani a sostenere una linea politica che concretizzasse questo obiettivo e la guerra in Iraq doveva infatti essere, agli occhi di chi l’aveva promossa, la dimostrazione sul campo di questa tesi.

Le cose sono andate diversamente: non solo perché non vi è stata la preannunciata facile vittoria sul campo di battaglia ma perché, nel frattempo, tutto intorno era cambiato. Cresceva rapidamente la presenza cinese, si ricostruiva sempre più forte l’identità russa, si presentavano all’orizzonte l’India e il Brasile e la stessa Unione Europea, pur con i suoi infiniti problemi politici, cominciava a diventare un punto di riferimento.

Dopo il mondo bipolare della guerra fredda e la breve parentesi monopolare americana, siamo quindi progressivamente ritornati al vecchio modulo di un mondo composto da diverse grandi potenze, anche se con gli Stati Uniti certamente più forti degli altri, ma non in grado di reggere da soli il peso di tutto il pianeta.

Sia chiaro: la capacità degli Stati Uniti di essere il punto più forte della politica mondiale è ancora concreta e reale ma questa leadership non può più essere esercitata in modo solitario. Non siamo ritornati al Congresso di Vienna perché rispetto a quei tempi vi sono almeno due grandi novità. La prima è la crescente importanza delle organizzazioni internazionali a cominciare dall’ONU per passare all’Organizzazione mondiale per il Commercio, al Fondo Monetario Internazionale e alla stessa Unione Europea. La seconda è la troppo diffusa presenza di armi nucleari che rende il mondo più pericoloso ma che, nello stesso tempo, spinge i governanti a comportamenti prudenti, come avveniva già ai tempi della guerra fredda.

I nuovi protagonisti della politica mondiale tendono naturalmente a sfruttare questi eventi. Non solo nel campo politico ma anche in quello dei rapporti economici e commerciali. Pensiamo a come i paesi in via di sviluppo (guidati da India, Cina e Brasile) abbiano bloccato i grandi negoziati di Doha sul commercio internazionale.

Non era solo una difesa di interessi economici (riguardo ai quali un compromesso era ancora possibile) ma una vera e propria dimostrazione di forza nei confronti degli Stati Uniti e dell’Europa. Essi hanno voluto fare vedere a tutti che il mondo era cambiato e che senza il loro assenso nessuna decisione poteva essere presa.

Lo stesso sta avvenendo nel campo politico: il conflitto fra Russia e Georgia ne è una conferma. La Russia ha voluto riaffermare, dopo le umiliazioni che hanno seguito la dissoluzione dell’impero sovietico, la ricostruzione di una propria forza e di una propria sfera di influenza.

Non credo che questo sia un episodio unico e non credo nemmeno che si limiti alla Russia perché la ricomposizione del potere in ambito mondiale è appena cominciata e sarà ulteriormente accelerata dalla crisi economica e finanziaria di cui ancora è difficile prevedere l’esito finale. Quello che è certo è che la Russia, con la strategia portata avanti in Georgia, ha rimesso a nuovo la vecchia dottrina delle zone di influenza.

Nonostante i suoi problemi interni (demografici, politici ed anche economici) ha, con grande tempismo, approfittato di un momento di difficoltà degli Stati Uniti per ribadire che, nel mondo multipolare, esistono aree di rispetto e che, perciò, non avrebbe né gradito né permesso un ulteriore avanzamento della NATO sulla soglia di casa propria.

Nelle ultime settimane la Russia è diventata più prudente (o almeno meno assertiva) sia perché aveva sostanzialmente ottenuto quello che voleva, sia perché la crisi finanziaria e il crollo del prezzo del petrolio mettevano un poco in sordina un orgoglio nazionale che non sembrava avere più limiti. Pur lasciando per ora da parte gli effetti della crisi finanziaria, non vi è dubbio che nello spazio degli ultimi anni il mondo è cambiato, anche se ce ne siamo accorti solo da pochi mesi.

Di questo cambiamento dovrà essere consapevole il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Esso dovrà agire sapendo che la propria forza è sempre la maggiore nel mondo ma che esistono limiti e sfere di influenza da rispettare. E che l’uso della forza potrà essere esercitato solo se accompagnato dalla consapevolezza e dal rispetto delle nuove realtà della politica mondiale.

È una regola che vale per tutti, e che anche molti paesi europei hanno compreso, sia nella scorsa primavera quando Francia, Germania e Italia hanno spinto alla prudenza riguardo ad un allargamento non concordato della Nato fino ai confini della Russia, sia qualche anno fa quando l’Unione Europea aveva posto un limite alla sua stessa prospettiva di allargamento, proponendo di creare attorno a sé un anello di paesi legati da stretti rapporti di collaborazione e di amicizia ma senza che essi divenissero membri dell’Unione Europea.

Da un mondo monopolare siamo quindi tornati di nuovo ad un mondo multipolare, con più protagonisti, con necessità di prudenza addizionale e con l’esigenza di una più forte presenza arbitrale da parte delle Nazioni Unite.

Se il prossimo Presidente degli Stati Uniti saprà correttamente interpretare questo nuovo mondo, il suo paese sarà in grado di giocare in modo attivo e credibile il ruolo di baluardo della libertà e della democrazia che in tante occasioni ha esercitato.

Se cercherà di continuare a esercitarlo in modo solitario non potrà certo riuscire nel suo obiettivo. Per questo motivo la sfida fra Obama e McCain è più che una semplice sfida elettorale.

Romano Prodi

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22

Oct

Intervista a Famiglia Cristiana: “Ricomincio dal Mondo”

Inserito da admin  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

ESCLUSIVO – L’AFRICA, L’EUROPA, LA CRISI DEI MERCATI: PARLA ROMANO PRODI

di Francesco Anfossi e Luciano Scalettari

Versione integrale dell’intervista che sul cartaceo, per mancanza di spazio, è riportata solo parzialmente.

«RICOMINCIO DAL MONDO» Nella prima intervista da quando ha lasciato Palazzo Chigi l’ex premier ci parla del suo nuovo incarico per le Nazioni Unite. Ma si toglie anche qualche sassolino…

Prende dalla scrivania l’agenda Moleskine e comincia a leggere il diario del suo ultimo viaggio, quello in Iran, dove ha rivisto molti “vecchi amici” come Kofi Annan e numerosi rappresentanti dell’oligarchia persiana, a cominciare da Khatami. “Tanti colloqui di oltre un’ora in cui si parla con franchezza anche se con tanta retorica”, ha annotato.

Per la sua prima intervista da quando non è più presidente del Consiglio (con un’unica condizione, non parlare della situazione politica interna italiana) ha scelto il suo ufficio nel cuore di Bologna, in via Santo Stefano, il suo “buen retiro” dove ha amici e affetti. Ma Romano Prodi “a casa sua” ci sta poco, la sua “sesta vita” professionale (dopo l’Università, L’Iri, il Governo, la Commissione europea, il nuovo Governo) prevede il mondo: nell’agenda dei prossimi giorni ci sono la Francia e il Sudafrica e poi ancora New York, Palazzo di Vetro. “All’Onu dovremmo iniziare la stesura del rapporto sull’organizzazione delle missioni di peacekeeping in Africa. Una missione importante e delicatissima il cui successo dipenderà molto anche dal ruolo che avrà in futuro l’Unione africana, l’omologa dell’Unione europea”.

* Chi decide le operazioni di pace in Africa?

«Le Nazioni Unite, questo è un punto fermo. Quel ruolo sarà la stella polare nella stesura del mio rapporto».

* Eppure le missioni di peacekeeping in Africa sono rare e difficoltose.

«Dobbiamo partire da un fatto: ormai nessun Paese dell’Occidente, diciamo nessun Paese ricco, manda più truppe in Africa, a meno che non vi sia un motivo di diretto interesse».

* Dunque a mantenere la pace in Africa dovranno essere gli africani…

«Per questo occorre che la responsabilità di queste missioni sia assunta non dai singoli Stati ma dall’Africa nel suo complesso, ovvero dall’Unione africana, una struttura giovane, che deve crescere e rafforzarsi. Anche per le missioni di pace. La via l’abbiamo indicata quando ero alla Presidenza della Commissione europea, affidando per la prima volta all’Unione Africana sostanziose risorse per il peacekeeping: una mossa che è stata ritenuta allora azzardata e di cui oggi sono tutti contenti. Ripeto la frase che usai a Bruxelles: “L’Africa è sulle spalle dell’Europa, abbiamo un obbligo molto importante, morale, storico e politico. Tra Europa e Africa c’è un rapporto di amore e odio, dovuto al passato coloniale che dobbiamo trasformare in un rapporto del tutto positivo e nuovo”».

* L’Unione africana è una struttura molto fragile, sarà adeguata a un compito fondamentale per il Continente?

«L’Unione Africana è piena di difficoltà e contraddizioni, è strutturata in una serie di organismi e commissioni con carenze burocratico-amministrative, ma esiste. I suoi leader sono di altissimo livello, a cominciare dal presidente Jean Ping, questo africano con gli occhi a mandorla così penetranti, che ha intelligenza e sensibilità politica da vendere. Ma l’Unione africana deve avere il ruolo di garante, indispensabile per rappresentare la molteplicità degli Stati Africani».

* È vero che per fermare il genocidio in Ruanda sarebbero bastati mille caschi blu?

«Pare di sì. La riuscita degli interventi di pacificazione dipende infatti dai tempi con cui i caschi blu vengono inviati. Se si mandano subito ne bastano pochi. Per questo il problema è come riuscire ad essere rapidi ed efficienti in caso di crisi. Attualmente l’organizzazione delle missioni in Africa è quasi inesistente ed è un miracolo che si sia potuto fare quello che si è fatto».

* Che significa riorganizzare le operazioni di peacekeeping?

«Significa rivedere organizzazione, addestramento, logistica, trasporti, rapporti con le istituzioni regionali, mezzi. E anche stipendi, che sono molto bassi attualmente, e a volte vengono versati con ritardi drammatici o non sono affatto pagati. Bisogna avere anche un’unica catena di comando: nelle missioni di pace organizzate durante il mio Governo, in Albania e in Libano, c’era una struttura di comando lineare sostenuta da un accordo politico ferreo, come quello tra me, Chirac e Kofi Annan per il Libano. In quei frangenti bisogna decidere in fretta, perché il tempo è vitale. Al momento giusto, con un via, devono partire all’istante soldati, navi, aerei, truppe e mezzi di supporto».

* L’Italia è molto stimata per le sue missioni di peacekeeping in tutto il mondo, al punto che c’è chi dice che ci ha fatto dimenticare la brutta immagine che aveva alla fine della Seconda guerra mondiale…

«Questo è vero e dipende da due motivi. Innanzi tutto perché le truppe italiane hanno una struttura seria e ben addestrata. In secondo luogo perché hanno sviluppato al massimo questa doppia faccia militare e di assistenza alla popolazione. Corrisponde a una frase pronunciata nel 1956 dall’allora segretario generale dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjöld: “Il mantenimento della pace non è una lavoro da soldato ma solo un soldato lo può fare”».

* Come mai l’Africa in questi decenni non è cresciuta com’è accaduto invece ad altri Paesi, come India e Cina?

«Questo dipende dalla frammentazione del Continente in tanti Stati. La loro piccolezza e la mancanza di quella che gli inglesi chiamano governance, che potremmo tradurre con buon governo. Quello che mi angoscia è che la crisi economica internazionale frenerà anche quel poco sviluppo cui abbiamo assistito in questi anni. Abbiamo segnali ben precisi: stanno calando gli investimenti dall’estero e c’è un calo delle esportazioni. La sfida diventa quindi ancora più difficile. L’Unione africana deve poter godere di nuovi mezzi e di nuovo credito. Ed è chiaro che Gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione europea non sono sufficienti. Il nostro compito è portare a bordo anche le altre potenze: la Cina, l’India, i Paesi del Golfo, la Turchia, il Brasile, la Russia. In particolare la Cina, con il potere economico e gli interessi che ha in Africa deve assumersi nuove responsabilità che peraltro sembra intenzionata ad assumersi. È successo così anche per la missione in Libano, quando Pechino decise di inviare un suo piccolo contingente di caschi blu».

* Le relazioni fra Cina e Africa stanno diventando una questione cruciale. La presenza cinese è dirompente. C’è chi ne è molto preoccupato, perché la strategia è puramente di scambio, commerciale.

«Ho fatto questa domanda a tutti i leader africani. La risposta è interessante. Per l’Europa l’attivismo cinese può diventare un problema, ma è anche vero che la Cina è l’unica che sull’Africa fa una politica continentale, con una visione complessiva. Fa i propri interessi, è chiaro, ma ha avviato un processo concorrenziale, che vorremmo fosse fatto proprio anche da altri, nell’interesse dell’Africa».

* La Cina, però, non si pone alcun problema sulla questione dei diritti umani, del buon governo, di fare affari con dittatori o di vendere armi…

«Vi sembra che gli Stati europei se li siano posti davvero questi problemi? Perché li dovremmo porre solo alla Cina? Così replicano i presidenti africani. La Cina deve porsi in modo serio anche la responsabilità di sostenere e finanziare l’Unione Africana. A fianco del potere deve esserci anche la responsabilità. Teniamo conto che c’è un fatto senza precedenti nella storia: è la prima volta che un Paese esporta in modo massiccio e simultaneo capitali, uomini e tecnologie. Verso un intero Continente».

* Cosa comporta, secondo lei?

«Tra due o tre anni la Cina sarà il primo partner economico e commerciale dell’Africa. E con questo dovremo fare i conti. Entro il 2010, massimo 2011 supereranno l’Europa. Già ora sono il primo compratore del petrolio angolano e sudanese».

* Il ministro Tremonti dice che la crescita cinese assomiglia in modo preoccupante alla Germania del dopo Weimar. Fra 40 anni – scrive nel suo libro La paura e la speranza – potrebbe dichiararci guerra…

«Io penso che ci sia necessità di un progressivo coinvolgimento della Cina nelle relazioni internazionali. Se Tremonti pensa che l’alternativa sia fare guerra alla Cina, la faccia. Credo che abbiamo impostazioni diverse. Negli ultimi mesi del mio Governo, ho chiesto a Bush, a Putin, ai principali leader dei Paesi avanzati come vedevano il rapporto con la Cina fra vent’anni. Nessuno mi ha ovviamente potuto dare una risposta. Io dico che dobbiamo preparare un mondo multipolare, dove tutti stiano alle regole e rispettino gli accordi internazionali. Dobbiamo operare perché la Cina sia inserita nel tessuto e nella rete di questi rapporti internazionali. Se mi è permessa una battuta, piuttosto, ricordo che Tremonti aveva previsto che la nostra grande crisi sarebbe venuta da India e Cina. Invece è venuta da Wall Street. Dovrebbe rifletterci. Semmai la Cina sta aiutando ad arginare la crisi degli Stati Uniti».

* Si parla molto di Obiettivi del Millennio e della necessità di riequilibrare le disparità fra Paesi ricchi e poveri. Qual è la strada praticabile?

«Bisogna, intanto, parlarne con coerenza. Insistiamo molto sul riequilibrio, ma appena due Paesi come Cina e India riescono a risalire la china con le proprie forze urliamo contro i pericoli della loro crescita. Piuttosto, dobbiamo creare le condizioni perché, domani, le grandi potenze – Stati Uniti, Europa, Russia, Cina, India – possano avere relazioni equilibrate. Per dieci anni ha dominato l’idea di un mondo unipolare, in cui un Paese è in grado di comandare da solo. La guerra in Iraq l’ha cancellata, e non solo perché quella guerra non è stata vinta, ma anche perché nel frattempo c’è stata la crescita della Cina e un atteggiamento più assertivo della Russia e una nuova presenza indiana. Adesso viviamo in un mondo dove c’è una potenza superiore alle altre, gli Stati Uniti, ma non è certamente l’unica. Viviamo in una realtà internazionale che va gestita».

* Significa forse un ritorno a una sorta di Congresso di Vienna?

«Può darsi. Penso sia positivo che ci si renda conto che il mondo è sempre più multipolare, e questo richiede maggiore sforzo di accordi e di mediazioni a livello internazionale».

* Nel suo nuovo ruolo gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina, la Russia, saranno i primi interlocutori per mettere insieme risorse e mezzi per creare la struttura del peacekeeping. Quale sarà la strategia?

«Quand’ero presidente dell’Unione europea, ho lavorato molto per rafforzare il multilateralismo. Lo stesso deve accadere per la struttura di mantenimento della pace: con nuovi accordi per il versante economico e logistico, e con il rafforzamento del ruolo dell’Onu per la parte politica».

* In Africa, i più recenti conflitti sono stati risolti mettendo semplicemente insieme al potere i contendenti. Così è avvenuto, ad esempio, in Kenya e in Zimbabwe. Poi le missioni dei caschi blu devono tenere insieme le situazioni di estrema tensione che queste soluzioni creano. Che ne pensa?

«Il fatto è che, spesso, è l’unica possibilità. Queste soluzioni, però, possono essere efficaci solo grazie a mediazioni forti e autorevoli, come sta avvenendo con Kofi Annan e Mbeki, in Kenya e in Zimbabwe. Non è cosa da poco. Quello che manca è proprio un’adeguata struttura di peacekeeping anche per accompagnare l’applicazione degli accordi che nascono da queste difficili mediazioni. E non intendo solo i soldi e i soldati: il peacekeeping si fa anche con i militari, ma il ruolo di prevenzione e di dialogo lo fanno i diplomatici e la politica internazionale, che è parte integrante del peacekeeping. Oggi, ad esempio, è molto preoccupante la situazione del Congo orientale che rischia di diventare esplosiva. Ma le strutture adeguate per intervenire in fretta non ci sono».

* Finché la trattativa sul conflitto somalo è stata guidata dall’Italia si sono ottenuti risultati. Quando è passata in mano ad altri, si è di nuovo inceppato il processo di pace. È d’accordo?

«Gli uomini che l’Italia aveva messo in campo conoscevano probabilmente molto meglio degli altri la realtà e la situazione somala».

* Che relazione vede fra la Corte penale internazionale e il peacekeeping?

«Mi sono trovato ad assistere a un interessantissimo dibattito sull’eterno dilemma fra giustizia legale e riconciliazione. I leader africani presenti erano quasi tutti schierati per la riconciliazione. È giusto che chi commette delitti venga punito, ma c’è il rischio che questo porti al riaccendersi del conflitto. Il primo nostro obiettivo è sostenere la pacificazione e la riconciliazione. Il fare giustizia non deve far dimenticare che ci sono popolazioni esposte alle conseguenze di eventuali nuove tensioni. E il loro diritto alla vita viene prima. Fatta salva l’autonomia doverosa della Corte penale internazionale, il quando e il come usarla deve tenere conto di questi aspetti».

* Che ne pensa del modo con cui l’Europa ha gestito la crisi? L’Unione e i suoi governi hanno dimostrato rapidità di decisione, affiatamento e soluzioni più convincenti degli Stati Uniti nel salvataggio della struttura finanziaria ed economica…

«Penso quello che ho sempre detto. L’Europa reagirà al processo di scollamento, soprattutto dopo i referendum francesi, irlandesi e olandesi, solo in conseguenza di una grande crisi, quando la paura fa novanta. Di fronte a questo egoismo sfaccettato soltanto le bastonate, purtroppo, potranno riportare l’Europa sui binari giusti. E mi sembra che quello che sta avvenendo in questi giorni confermi queste previsioni».

* Tra l’altro i Governi hanno abbandonato il liberismo senza regole, il laissez-fare, per tornare a una regolamentazione del mercato e a un intervento diretto pubblico, con politiche di deficit spending, come le definiva il grande economista Keynes…

«Qui siamo alla tragicommedia. Quando parlavo della necessità di regolamentare l’economia, quando dicevo che Keynes non era morto, venivo tacciato con disprezzo di essere “quello dell’Iri”. Oggi sono tutti keynesiani e tutti vogliono statalizzare le imprese… In realtà l’economia trova le sue fondamenta nel mercato, ma ha bisogno di severi strumenti di regolamentazione e sorveglianza. Strumenti che non possono non essere nelle mani dell’autorità politica, nazionale e sovranazionale. Eppure per anni mi sono dovuto sorbire le prediche di coloro che sostenevano che la mano invisibile dei mercati era sufficiente a risolvere ogni problema. In questi giorni mi sto godendo un sacco di soddisfazioni sul piano intellettuale: si è scoperto che occorre anche la mano ben visibile dello Stato. Mi hanno attaccato perché venivo dall’Iri e oggi gli stessi propongono rimedi che assomigliano più alla vecchia pianificazione sovietica che all’Iri».

* Si parla di una nuova Bretton Woods, la Conferenza che regolamentò i mercati fissando i rapporti di cambio tra i Paesi Occidentali, in cui il dollaro (agganciato all’oro) era la moneta regina…

«Sì, sono favorevole, anche se non si possono sapere gli esiti di una conferenza del genere prima della sua conclusione. Ma se si fa una nuova Bretton Woods dobbiamo rivedere i rapporti di forza tra il dollaro e le altre monete, a cominciare dall’euro. Non siamo ancora all’utopia di Keynes della moneta unica mondiale, ma è certo che la nuova Bretton Woods per essere efficace dovrà stabilire un nuovo ordine economico mondiale. E in ogni modo non si potrà non tener conto dell’esistenza dell’euro e dei grandi cambiamenti dell’economia mondiale».

* Eppure in Italia c’è che dice che si stava meglio con la lira, che in una fase simile si sarebbe potuto facilmente svalutare facilitando le esportazioni.

«A parte il fatto che si creerebbe una situazione di insolvenza tragica e di impoverimento generale con tassi d’interesse alle stelle e fughe di capitali, mi viene in mente le frase che mi disse il Presidente cinese ai tempi in cui l’euro – quando la Repubblica popolare cinese vi aveva investito parte delle sue riserve – si era un po’ deprezzato. Mi disse che seguendo il mio suggerimento di investire in euro non aveva fatto un buon affare, ma che avrebbe continuato a comprare euro, sia perché si sarebbe rivalutato (come poi avvenne), sia perché – soprattutto – l’euro per la Cina costituiva una grande novità politica, di differenziazione dallo strapotere del dollaro, uno strumento di multipolarità. Ecco perché l’euro è così importante per il futuro di tutti noi. Quando penso a quelli che vogliono il ritorno alla lira…»

* Oggi si parla con sempre più insistenza di rivedere i vincoli-capestro di Maastricht, anche per via dell’aumento di spesa pubblica necessaria al salvataggio delle banche…

«Quando diedi la famosa intervista a Le Monde dicendo che come tutte le cose rigide il Patto di stabilità era stupido, sono stato letteralmente massacrato. Anche allora, ai tempi in cui Monti ed io lavoravamo per rendere il Patto più intelligente, scrissi che solo una crisi ci avrebbe permesso di andare avanti. Ma c’è un’altra cosa…»

* E cioè?

«È chiaro che il Patto di stabilità avrebbe dovuto essere accompagnato da una maggiore autorità in campo di politica economica a livello europeo. Accanto ad ogni banca centrale c’è in ogni Paese un ministero dell’Economia che prende decisioni di politica economica. La Banca centrale europea (Bce) ha accanto gli innumerevoli ministri dell’Economia che prendono decisioni solo all’unanimità e quindi non hanno quasi nessuna possibilità di decidere. Il problema della Bce è la sua solitudine. A fianco della politica monetaria deve esserci sempre una politica economica».

* Che ne pensa della politica italiana sull’immigrazione?

«L’Italia vuole gli immigrati di notte, per fare i turni in fabbrica, ma non i loro bambini di giorno. Vuole le badanti, ma solo quando badano. Poi devono scomparire».

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