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13

Sep

Siria: l’unica via per fermare l’ISIS è un accordo fra USA e Russia

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Solo l’accordo tra Russia e Stati Uniti salverà la Siria

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 settembre 2015

Le analisi sulla tragedia siriana sono così numerose e contrastanti da produrre un crescente disorientamento anche tra i massimi esperti delle questioni mediorientali. Si sa tutto di quanto sta avvenendo ma divergono sempre più le ipotesi di come le cose possano essere risolte.

La tragedia di cinque anni di guerra ha ormai raggiunto livelli inimmaginabili: oltre 250mila morti e quasi sette milioni di rifugiati. Le migliaia e migliaia di vittime che hanno bussato alle porte dell’Europa sono solo una piccola parte di coloro che, fuggiti nei paesi vicini, vivono nella disperazione dei campi profughi.

Nonostante le conseguenze di questa tragedia, la guerra fra sciti e sunniti e fra le infinite frazioni di sunniti si estende e si approfondisce, preparando altre tragedie.

È ormai una guerra per procura perché le grandi potenze vi esercitano un’influenza decisiva ma non riescono o non vogliono trovare tra di loro un accordo, anche se, dalla Cina alla Russia, dall’Europa agli Stati Uniti, il terrorismo che si raduna attorno ai vari califfati viene ritenuto il pericolo numero uno della pace e della convivenza mondiale.

Fino ad ora non si è trovata nessuna intesa contro questo nemico comune, che si è quindi rafforzato e che ancora più si rafforzerà se le tensioni fra le grandi potenze permetteranno che i terroristi continuino a ricevere immense risorse dalle vendite di petrolio, dai rapimenti, dai taglieggiamenti e dalle vendette che sempre si accompagnano alle guerre civili.

Negli ultimi giorni, anche perché indebolita dal crollo degli introiti petroliferi e dalle sanzioni, la Russia ha aumentato la propria presenza militare in Siria, non solo per ribadire la tradizionale amicizia con il dittatore Assad ma soprattutto per dimostrare che l’esercito siriano è l’unica forza attorno alla quale è possibile organizzare la lotta contro il califfato.

Gli Stati Uniti, e in misura minore (molto minore) la Francia e la Gran Bretagna, attaccano l’Isis con incursioni di aerei e di droni ma nessuno ha alcuna intenzione ed alcuna possibilità politica di inviare in Siria truppe di terra. L’opinione pubblica americana, anche quella che più preme per una politica muscolare, non è in grado di sopportare che altri cadaveri ritornino da guerre lontane. L’Iraq e l’Afghanistan sono un ricordo troppo recente di un prezzo altissimo pagato per ottenere risultati dubbi o negativi.

Nello stesso tempo tutti sono consapevoli che le guerre non si vincono con i droni ma con gli scarponi e gli unici scarponi, ancorché terribilmente malandati, sono quelli dell’arcinemico Assad, protetto dall’arciavversario Putin. Bisogna che di questo gli Stati Uniti prendano atto.

Per un po’ di tempo una buona parte dell’establishment militare americano ha coltivato l’illusione, ancora oggi portata avanti da alcuni intellettuali europei, che l’Isis sia fragile e fornito di forze non sufficienti per espandersi. Non sono un esperto militare ma sono costretto a constatare che, almeno fino ad ora, le cose sono andate in senso opposto. Le divisioni esistenti nello schieramento anti-terrorista non sono oggi in grado di proteggere né il popolo né le memorie storiche della Siria. Di conseguenza il Califfato è in posizione di crescente forza.

Tutto questo andrà avanti finché gli Stati Uniti continueranno a trovarsi nella posizione impossibile di combattere nello stesso tempo contro il terrorismo e contro il suo unico avversario sul terreno, e cioè l’odiato Assad.

La Russia ha fatto la scelta di essere con Assad contro il Califfato, costringendo gli Stati Uniti a decisioni estremamente difficili ma che non possono essere a lungo rinviate.

Tenendo conto della debolezza russa e delle contraddizioni americane, l’unica via possibile è un compromesso fra queste due grandi potenze in modo da lottare insieme contro il terrorismo e preparare, nei tempi e nei modi opportuni, la successione di Assad. Il caso iracheno e quello libico ( che ha tanti elementi comuni a quello siriano e nel quale noi italiani siamo in prima linea) dimostrano che l’abbattimento di un regime autoritario, senza preparare le soluzioni per il dopo, porta solo ad ulteriori e più gravi tragedie.

Da anni sono costretto a ripetere che, per vincere il terrorismo, non vi è soluzione al di fuori di un accordo tra le grandi potenze. Mi rendo conto di tutte le difficoltà che si frappongono a quest’accordo. Mi rendo conto che questo obbliga a mettere sul tavolo anche il problema ucraino, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Tutto difficile, ma l’alternativa è un’ulteriore immensa quantità di sangue e altri milioni di rifugiati. Un accordo, pur lento e faticoso, è la soluzione non solo razionale ma rispondente agli interessi russi, americani, cinesi ed europei.

Avanti quindi con trattative e negoziati. Anche se contrarie a principi più volte proclamati e a prese di posizioni lungamente ribadite, le trattative sono l’unica soluzione possibile. Non solo per il bene comune ma anche per perseguire gli interessi comuni. Bisogna però fare presto perché, in queste situazioni di grande tensione, gli incidenti sono sempre possibili.

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9

Sep

L’Europa non potrà far fronte a un’ondata di migranti senza limiti. Promuova iniziative per lo sviluppo africano

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Romano Prodi: «L’Europa è tornata, onore alla Merkel»
Per l’ex presidente della Commissione il flusso migratorio crescerà e l’Italia dovrà farsi promotrice di una risposta comune. «La Germania fa una scelta intelligente di fronte al crollo demografico della propria popolazione»

Intervista di Stefano Pasta a Romano Prodi su Famiglia Cristiana del 09 settembre 2015

«Finalmente sul tavolo dell’Europa c’è una risposta comune». Nei giorni convulsi che hanno cambiato l’Europa, quelli che hanno visto la storica marcia dei profughi siriani da Budapest a Vienna e a Bonn, Romano Prodi commenta il nuovo corso dell’Unione. Lo fa in margine al convegno di Tirana dedicato all’immigrazione e alle guerre in Medio Oriente e in Africa, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio.

Alcuni giorni fa, parlando dell’incapacità di gestire l’afflusso dei profughi che premevano sul confine ungherese, aveva detto che lo stato di salute dell’Europa era “terribile”. E oggi, presidente, dopo l’arrivo del corteo di profughi a Bonn accolto dalle note dell’Inno alla gioia e delle dichiarazioni di vari capi di Stato e di Governo, Cameron compreso?

«La risposta dell’accoglienza ai profughi di guerra era una necessità ovvia e bisognava arrivarci prima. Non si è riusciti a fare nulla finché l’unico Paese interessato era l’Italia; si è capito che una soluzione doveva essere trovata solo quando il flusso è dilagato nei Balcani».

Il via all’iniziativa è arrivato dalla Germania, che ormai determina tutta la politica europea.

«Ho più volte criticato la leadership tedesca quando perseguiva il suo solo interesse. Oggi invece fa prevalere il senso di un interesse comune. Inoltre, la Germania fa una scelta intelligente: di fronte al crollo demografico della propria popolazione, accoglie i siriani – laureati per il 40 per cento – adottando politiche inclusive e coniugando, al proprio, l’interesse europeo. Quindi chapeau alla Merkel!».

Cosa pensa dell’ipotesi quote e penalizzazioni economiche per quei Paesi che non accolgono parte dei profughi?

«Sono d’accordo con il messaggio: è un problema comune, chi non si adatta deve pagarne il prezzo. Si tratta di un passo in avanti, anche se è solo l’inizio: la proposta infatti vale unicamente per chi fugge dalle guerre e non per chi scappa dalla povertà dell’Africa. Questo flusso migratorio crescerà e l’Italia dovrebbe farsi promotrice di una riflessione europea comune».

Lei ha partecipato all’incontro di Tirana: Sant’Egidio propone canali umanitari, diritto d’asilo europeo e revisione dell’accordo di Dublino.

«L’accordo di Dublino, che impone ai Paesi in cui approdano i profughi di prendersene cura, è stato sorpassato dai fatti e dalla storia. Venne firmato, come un aspetto burocratico, quando il fenomeno aveva altre dimensioni, poi è stato rinnovato senza pensarci. Il diritto d’asilo europeo è auspicabile, però poco realistico nell’attuale situazione politica dell’Unione. I canali umanitari – lo dice la parola stessa – sarebbero uno strumento di civiltà, da promuovere senz’altro. D’altro canto l’Europa non potrà far fronte a un’ondata senza limiti. Per questo insisto sulla necessità di maggiori iniziative per lo sviluppo, a partire da progetti politici europei in favore, ad esempio, dell’istruzione nei Paesi africani. Quando ero presidente della Commissione avevamo prospettato tante iniziative comuni, ma sono rimaste lettera morta».

L’Ungheria alza muri, i cechi marchiano i profughi, i Paesi dell’Est sono contrari all’accoglienza: perché questa ostilità?

«Sono rimasto molto colpito dalle reazioni dei Paesi dell’ex blocco sovietico e me le spiego soltanto come conseguenza del lungo periodo comunista. I regimi hanno svuotato il senso della “solidarietà”, praticavano quella “internazionale” che però non era genuina perché imposta dall’alto».

Lei è stato il protagonista dell’allargamento dell’Unione all’Est: è stata la cosa giusta?

«Sì, abbiamo lasciato fuori l’Ucraina e guardi cosa è accaduto; al contrario, prosperano Polonia e Paesi Baltici. Chi dice che l’allargamento è stato troppo rapido, non capisce che il treno della storia passa veloce, una volta soltanto, e bisogna salirci sopra al momento giusto. Altrimenti la storia non perdona e accadono i disastri, come è appunto successo all’unico Paese rimasto in bilico, l’Ucraina.

L’Inghilterra vuole invece limitare il diritto d’accesso anche ai cittadini dell’Unione…

«Il Regno Unito guarda solo alla propria politica interna, sotto questo aspetto è un Paese diverso. Un esempio: quando si decise il pattugliamento europeo nel Mediterraneo, il primo ministro britannico Cameron dichiarò: “Certamente partecipiamo anche noi”, aggiungendo “poi li portiamo tutti in Sicilia”. Quasi come uno sfottò, nel momento del dramma… La Gran Bretagna è fuori da Schengen, non solo dall’euro, le interessa solo la libera circolazione delle merci; in questa fase storica, per gli inglesi, le cose valgono più delle persone».

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8

Sep

Con la globalizzazione è aumentata la disuguaglianza, lo Stato regoli il mercato

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: Luci ed ombre della globalizzazione. L’intervento a Tirana al Panel su “La gratuità e il mercato globale”
Mons. Ambrogio Spreafico: La cultura del gratuito reintroduce l’umano nella vita dell’uomo

Articolo sul sito della Comunità di Sant’Egidio del 8 settembre 2015

TIRANA – In un intervento al Panel su “La gratuità e il mercato globale” all’Incontro internazionale “La pace è sempre possibile” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Tirana, l’ex presidente della Commissione Europea Romano Prodi ha detto: “Non condanno la globalizzazione senza la quale un miliardo di persone non sarebbe arrivato ad una vita decente”.

Tuttavia “con la globalizzazione è aumentata la disuguaglianza, perché da quando si è avuta l’affermazione del modello Reagan -Thatcher per il quale chi mette le imposte perde le elezioni, prima sono state colpite le classi più basse e ora la classe media”.

Successivamente Prodi ha sostenuto che “quando il Papa dice che il mondo è troppo regolato dal ‘dinero’, descrive una realtà globale. Noi dobbiamo correggere la realtà, e deve essere lo Stato a regolare il mercato in modo che l’aiuto reciproco vada nella giusta direzione”.

Prodi ha parlato anche della questione dei rifugiati, e ha ricordato che “la gratuità viene esaltata quando si vive in un clima di giustizia sociale. Sui rifugiati era tutto fermo. Poi un governante (Angela Merkel, n.d.r.) dà un messaggio politico e si sblocca tutto, perché tutto era dominato dalla paura”.

Nello stesso Panel il Vescovo di Frosinone Mons. Ambrogio Spreafico ha sostenuto che “la logica del dono sembra scalzata dalla logica della finanza e del denaro; il mercato sembra ingovernabile. Una società così non può che vivere di paura e addossare le nostre paure agli elementi di disturbo, come è accaduto con i profughi”.

“La dittatura del materialismo – ha aggiunto Mons. Spreafico – si avverte anche in Africa e in Asia, in Paesi poveri nei quali si sviluppa una teologia della prosperità. Per questa mentalità e per questa teologia la vita è un’opportunità da cogliere ed il gratuito qualcosa che non conta. Invece la cultura del gratuito reintroduce l’umano nel cuore della vita degli uomini, emancipa dalla solitudine delle proprie sofferense e ricrea quell’umanesimo di cui abbiamo bisogno ed un nuovo antropocentrismo in dialogo col mondo e non più centrato sull’io”.

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6

Sep

Un cambio radicale della politica europea per gestire l’emergenza immigrati

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Ma la svolta non basta, l’emergenza è l’Africa

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 6 settembre 2015

Per anni l’ondata di migrazioni verso l’Europa è stata ritenuta un problema dei singoli paesi. Anzi, nonostante il crescente numero dei migranti e dei morti nel Mediterraneo, un problema sostanzialmente italiano. La solidarietà poteva al massimo esprimersi in un aiuto finanziario o in una partecipazione al soccorso di naufraghi, che venivano successivamente scaricati sulle nostre coste. Bisognava che l’ondata prendesse anche altre strade, dilagando verso i paesi dell’Europa Orientale, perché la coscienza europea finalmente si svegliasse. Come ormai sempre più spesso avviene, la necessaria iniziativa politica è partita dalla Germania.

La proposta della signora Merkel di una strategia europea per i rifugiati è stata opportuna, coraggiosa e, nello stesso tempo, generosa e intelligente. Opportuna perché ormai il problema stava esplodendo con esiti imprevedibili ma in ogni caso tragici. Coraggiosa perché la Cancelliera tedesca ha preso la difficile decisione di opporsi ad alcuni dei suoi più stretti alleati come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la stessa Gran Bretagna.

Generosa perché ha enormemente moltiplicato il numero di coloro a cui è concesso il diritto d’asilo, accogliendo in Germania centinaia di migliaia di persone in pericolo di vita. Allo stesso tempo intelligente perché si tratta di un’ondata di rifugiati generalmente forniti di un alto livello di istruzione: essi possono essere quindi bene inseriti, attraverso un’attiva politica di accoglimento, nel sistema produttivo tedesco che ne ha sempre più bisogno.

Questa decisione, che ha ridato finalmente dignità all’Europa e di cui siamo grati alla Cancelliera tedesca, ha naturalmente un’efficacia parziale e limitata nel tempo. Limitata nel tempo perché, se i conflitti del Medio Oriente dureranno ancora, i milioni di rifugiati in Turchia e negli altri paesi al confine della Siria, premeranno sulle frontiere europee in una tale quantità che sarà impossibile gestire. Questo problema può essere risolto ( e lo può essere davvero) solo se le grandi potenze eserciteranno le dovute pressioni nei confronti della Turchia, dell’Arabia Saudita e dell’Iran perché pongano fine alla loro lotta per la supremazia nel mondo islamico, una lotta che sempre più destabilizza il Medio Oriente. Obiettivo possibile solo partendo da un necessario accordo fra Stati Uniti e Russia, accordo reso difficile principalmente dal caso ucraino.

La soluzione della migrazione originata dalla guerra risolverebbe tuttavia solo una parte del problema perché appare sempre crescente (e illimitata nella sue prospettive temporali) la migrazione spinta dalla fame e dalla povertà. Una migrazione che arriva soprattutto dall’Africa, continente che supererà i due miliardi di abitanti entro la metà del secolo.

Paesi come il Niger e il Mali raddoppieranno la loro popolazione in diciotto anni: essi non hanno alcuna credibile alternativa all’emigrazione, così come è in gran parte il caso del Senegal e dei duecento milioni di nigeriani.

Di fronte alle dimensioni di questa tragica prospettiva non si sta preparando alcuna soluzione.

Tutto il mondo dovrebbe essere interessato allo sviluppo africano ma il peso maggiore non può che cadere sulle spalle dell’Europa non solo per motivi storici ma perché è verso di noi che si dirige (e ancora più si dirigerà) questa marea umana. È chiaro che premessa per gestire civilmente questo enorme problema è la soluzione del dramma libico ma non pensiamo che, anche in caso di pacificazione di questo paese, la spinta migratoria si rallenti. Ormai si tratta di un’ondata della storia a cui si può porre ordine solo cambiando la storia, cioè con un impegno di cooperazione politica ed economica intenso e prolungato fra l’Unione Europea e i paesi africani.

Sotto quest’aspetto l’Europa non ci sente e, in fondo, non ci ha mai sentito. Ho di questo un’esperienza personale. Mentre è stato possibile organizzare una politica di apertura e di accoglienza dei paesi in precedenza parte dell’Unione Sovietica ( paesi che sembrano dimenticare quanto è stato fatto per loro) non si è mai trovato un accordo per una politica africana, nemmeno limitata ai paesi della sponda sud del mediterraneo.

I leader del Nord Europa si sono sempre opposti alla creazione della Banca del Mediterraneo. Hanno ugualmente respinto il progetto di creare università comuni con professori e studenti europei ed africani. Non è stato nemmeno preso in esame un progetto ( chiamato l’anello degli amici) che prevedeva la possibilità di accordi bilaterali e volontari fra l’Unione Europea e tutti i paesi con essa confinanti, dalla Bielorussia fino al Marocco, passando per l’Ucraina, la Siria, l’Egitto, Israele e la Libia.

Il risultato di tutto questo è che di amici attorno a noi ne abbiamo sempre meno, sopratutto a Sud, proprio di fronte alle nostre coste.

Occorre quindi un cambiamento radicale della politica europea. Sarà certo complesso e costoso ma costerà sempre meno della gestione di un flusso di migranti senza limiti e senza regole. I tragici avvenimenti di questi giorni ci hanno obbligato a prendere atto della necessità di gestire l’emergenza. Ora bisogna prepararci a costruire il futuro di un mondo ormai irresistibilmente globale.

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25

Apr

Con questi leader l’Europa fallisce

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: «Con questi leader l’Europa fallisce»

Intervista di Carlo Lania a Romano Prodi su Il Manifesto del 25 aprile 2015

Intervista al manifesto. L’ex presidente della commissione europea Romano Prodi: «Su immigrazione e accoglienza il consiglio europeo non ha detto niente. Mi aspettavo di più, ma sono abituato alle delusioni». «Parlare di affondare i barconi soddisfa solo la demagogia». E su Renzi: «La migliore pubblicità al mio libro l’ha fatta proprio lui»
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Deluso dal con­si­glio euro­peo? «Vera­mente non mi aspet­tavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affon­dare i bar­coni degli sca­fi­sti? «Dovreb­bero spie­garmi come farlo senza pro­vo­care una strage». Aprire campi pro­fu­ghi in Africa? «E per­ché non al Polo Nord? Fareb­bero di tutto pur di tenere i migranti lon­tani dall’Europa».

Non si sot­trae a nes­suna domanda Romano Prodi. L’ex pre­si­dente del con­si­glio ed ex pre­si­dente della com­mis­sione euro­pea man­tiene sem­pre uno sguardo molto attento a quanto suc­cede in Europa, e in par­ti­co­lare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impe­di­sce di repli­care al pre­si­dente del con­si­glio che ha deru­bri­cato a pub­bli­cità edi­to­riale (è in edi­cola «Mis­sione incom­piuta», il libro scritto con Marco Dami­lano) le opi­nioni poli­ti­che del lea­der dell’Ulivo. «Vera­mente la migliore pub­bli­cità me l’ha fatta lui. I librai si sono affret­tati a ordi­nare altre copie del libro», scherza.

Pre­si­dente come giu­dica le con­clu­sioni rag­giunte sull’immigrazione dal con­si­glio europeo?

Il giu­di­zio è misto, nel senso che c’è una parte di rac­colto posi­tivo, che è l’aumento della dota­zione euro­pea e poi ci fer­miamo lì. E’ un giu­di­zio di sod­di­sfa­zione nel senso che il dia­logo va avanti, ma anche di delu­sione per il fatto che sui punti car­dine, cioè sulla poli­tica dell’immigrazione e sulla stra­te­gia di acco­gli­mento non c’è pro­prio niente. Resta sim­bo­lica la frase di Came­ron: «Pren­diamo pro­fu­ghi e li por­tiamo in Italia».

Si aspet­tava o spe­rava qual­cosa di più?

Spe­ravo sì, aspet­tavo no. Pur­troppo sono abi­tuato alle delu­sioni. Era quello che nell’attuale situa­zione euro­pea si può pen­sare sarebbe arrivato.

Lei in pas­sato ha par­lato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risul­tati del ver­tice sem­brano con­fer­mare que­sto giu­di­zio. Quali sono le ragioni di que­sta assenza?

Il pro­gres­sivo pre­va­lere degli inte­ressi nazio­nali sugli inte­ressi col­let­tivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capi­toli dell’economia. Figu­ria­moci quindi in poli­tica estera e immi­gra­zione che sono il capi­tolo più deli­cato. Ho sem­pre pen­sato che poli­tica estera e difesa sareb­bero state le ultime a essere messe inte­gral­mente nell’agenda euro­pea. L’integrazione euro­pea indub­bia­mente è entrata in un lungo periodo di crisi e set­tori come esteri, difesa e immi­gra­zione sono i capi­toli dif­fi­ci­lis­simi. Quindi non rite­nevo che il ver­tice avrebbe potuto far com­piere dei passi in avanti. Il mio è un sen­ti­mento di delu­sione ma atteso. Pur­troppo è la nor­ma­lità dell’attuale situa­zione europea.

Sem­bra quasi voler san­cire il fal­li­mento del pro­getto europeo.

Il fal­li­mento no, una lunga sosta sì. Il pro­getto euro­peo non può fal­lire. Dalla boc­cia­tura della Costi­tu­zione in poi i lea­der euro­pei hanno ascol­tato i loro popu­li­smi e seguito la loro poli­tica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.

Verrà però il momento in cui que­sto met­terà a rischio la stessa poli­tica interna dei diversi Paesi, allora si ricor­rerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in que­sto momento non vedo la spinta.

Che pensa della pos­si­bi­lità di affon­dare i bar­coni degli scafisti?

Non c’è nes­suno che mi dica come si fa. Con que­sto sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sem­bra una solu­zione. E infatti la nota vati­cana che ho visto in mate­ria lo mette bene in rilievo. Che fac­ciamo, bom­bar­diamo i migranti? I para­goni che ven­gono fatti con l’Albania o la Soma­lia sono del tutto fuori luogo per­ché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.

Inten­dia­moci: se uno potesse distrug­gere tutti i bar­coni vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma que­sta di bom­bar­darli è un’ipotesi che fa tanto pia­cere alla dema­go­gia e al sen­ti­mento popo­lare pre­va­lente. Per­ché atten­zione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sen­ti­mento popu­li­stico è arri­vato alle radici del popolo ita­liano. Se votas­simo a mag­gio­ranza forse vor­reb­bero bom­bar­dare i bar­coni, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.

Teme un nuovo inter­vento in Libia?

Ritengo tal­mente scia­gu­rata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.

Crede comun­que che si stia andando in quella direzione?

Vediamo prima di tutto cosa signi­fi­che­rebbe un inter­vento in Libia. Prima ipo­tesi: droni e aero­plani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipo­tesi: truppe. Signi­fica mobi­li­tare decine di migliaia di uomini o forse cen­ti­naia di migliaia di uomini, non mille o due­mila. Non è nem­meno pen­sa­bile. Poi c’è un altro pro­blema molto serio. L’obiettivo che si vuole col­pire in Libia è il ter­ro­ri­smo. Ma il ter­ro­ri­smo non è libico, è ubi­quo. Si fa la guerra in Libia e que­sti si spo­stano nel Sahel o negli altri punti già maturi per acco­glierli, come Siria, Iraq, Mali. Que­sto è l’unico effetto che si otterrebbe.

Nel libro che ha scritto insieme a Marco Dami­lano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dob­biamo a quell’errore anche l’emergenza immi­gra­zione di que­sti giorni?

Il fatto che sia incon­trol­la­bile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Sub­sa­hara me lo dice­vano tutti: guar­date che qui c’è una bomba demo­gra­fica, dove va la gente, dove scappa? Mi guar­da­vano pun­tando il dito e mi dice­vano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tut­ta­via alla fine pote­vamo trat­tare con la Libia di Ghed­dafi che minac­ciava sì di riem­pire dei bar­coni e di man­dar­celi, ma ave­vamo un inter­lo­cu­tore e alla fine si tro­vava il modo per farlo smet­tere. Oggi non c’è più un inter­lo­cu­tore, anzi è accla­rato che lo stesso ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale fac­cia buoni affari con i migranti.

A pro­po­sito, il pre­mier Mat­teo Renzi le rin­fac­cia i suoi rap­porti con Ghed­dafi.

Guardi, nel libro spiego tutta la sto­ria chia­ra­mente citando i docu­menti, com­presa la let­tera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per pole­mica ma per ricor­dare i vent’anni dell’Ulivo. E mi pro­pongo di scri­verne un altro tra vent’anni così potrò dare un giu­di­zio anche su que­sto periodo sto­rico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Ghed­dafi. Certo, gli inte­ressi ita­liani erano evi­denti. Con lui la linea è sem­pre stata ferma. Ci sono però due Ghed­dafi nella sto­ria. Il primo è un feroce dit­ta­tore all’interno del Paese. Rima­sto tale dall’inizio alla fine.

Poi c’è un secondo Ghed­dafi, quello della poli­tica estera. In una prima fase un Ghed­dafi trou­ble maker, un crea­tore di disor­dini. Ha pro­vo­cato guerre dap­per­tutto, voleva essere potenza mili­tare regio­nale e ha ali­men­tato il ter­ro­ri­smo: Loc­ker­bie, la disco­teca La Belle, tutte que­sti atti delin­quen­ziali. In una seconda fase ha capito che que­sto non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la respon­sa­bi­lità di invi­tarlo a Bru­xel­les sapendo di dare un con­tri­buto posi­tivo alla pace. Fu la sua prima visita uffi­ciale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un pro­blema per la comu­nità inter­na­zio­nale. Ho avuto rea­zioni nega­tive dagli Stati uniti e da Gran Bre­ta­gna. Dopo due mesi però erano tutti con­tenti e per incon­trare Ghed­dafi biso­gnava fare la coda.

Si era chiuso un pro­blema. Da pre­si­dente della com­mis­sione divenni poi pre­si­dente del con­si­glio e ini­ziammo una lunga nego­zia­zione sul Trat­tato di ami­ci­zia che io non volli fir­mare. Non per ten­sioni per­so­nali o per­ché avevo cam­biato parere, sem­pli­ce­mente per­ché difen­devo gli inte­ressi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte ita­liana. Poi altri hanno fir­mato. Quindi i miei rap­porti con Ghed­dafi sono stati fermi.

Le spiego un’altra cosa: io ho sem­pre avuto con­tatti anche con le tribù, i cui rap­pre­sen­tanti sono venuti in visita uffi­ciale a Bolo­gna. Pro­prio per­ché ho sem­pre col­ti­vato quel minimo di pos­si­bile dia­logo con la società civile. E que­sto mi ha reso una posi­zione abba­stanza aperta nei con­fronti sia di Ghed­dafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso auto­re­voli inter­lo­cu­tori libici hanno chie­sto, in modo uffi­ciale al pre­si­dente del con­si­glio ita­liano, che io diven­tassi il media­tore in Libia. Non avendo avuto nes­suna rispo­sta né loro né io, non so cosa è successo.

Tor­niamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distri­bu­zione dei richie­denti asilo, che l’Europa non sem­bra pro­prio voler sciogliere.

Que­sto è un punto che oggi non si rie­sce nean­che a discutere.

La can­cel­liera Mer­kel però ha detto che il rego­la­mento di Dublino non fun­ziona più. Si riu­scirà a modificarlo?

Mi auguro di sì, la spe­ranza c’è. Se però ragiono in modo razio­nale quando sento la rea­zione di Came­ron la leggo come la chiu­sura della porta per­fino alla discus­sione del pro­blema, per­ché di fronte ai suoi elet­tori lui dice no alla pos­si­bi­lità di acco­gliere pro­fu­ghi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Ita­lia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la can­cel­liera Mer­kel si impunta, col tempo si può anche arri­vare a porlo all’ordine del giorno.

Ma per­ché non si aprono cor­ri­doi umanitari?

Per­ché dall’opinione pub­blica ven­gono rite­nuti dei taxi. Ritor­niamo sem­pre al pro­blema dell’elettorato. La que­stione è enorme e non si risolve senza una mas­sic­cia dose di aiuti a un’Africa che si sta sve­gliando. Que­sto è l’elemento di spe­ranza, ci vor­ranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immo­bile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immi­grati in Africa da un anno e mezzo ha supe­rato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse auto­nome, alter­na­tive, poi ci sono inve­sti­menti stra­nieri che stanno crescendo.

Insomma il con­ti­nente comin­cia a muo­versi, se solo noi gli des­simo una spin­tina… C’è un fatto che la gente non capi­sce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la spe­ranza. Comin­ciamo a inne­scare que­sta spe­ranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, per­ché si emi­gra per disperazione.

Cosa pensa del pro­cesso di Khar­toum e della pos­si­bi­lità di aprire in Africa campi dove acco­gliere i pro­fu­ghi esa­mi­nando lì le richie­ste di asilo?

Pur­ché i migranti stiano lon­tani dall’Europa le pen­sano tutte. Per­ché allora i campi non li fac­ciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti defi­ni­scono dit­ta­to­riale, e ci met­tiamo i campi pro­fu­ghi? Basta il buon senso per capire che non va bene.

Per finire par­liamo di poli­tica. La nuova legge elet­to­rale mette fine all’idea di centrosinistra?

Posso ripe­terle che l’Ulivo è nato per il bipo­la­ri­smo. Ho sem­pre soste­nuto all’inizio un sistema elet­to­rale di tipo inglese. Data la fram­men­ta­zione poli­tica ita­liana e che vi sareb­bero stati par­la­men­tari eletti con il 20% dei voti, sono pas­sato al sistema fran­cese a due turni. In ogni caso ci devono essere più par­titi, o più coa­li­zioni che si con­ten­dono il governo del Paese.

E’ vero, come l’accusa qual­cuno, che sta pre­pa­rando insieme a Enrico Letta un piano per suben­trare a Renzi in caso di crisi?

Dovrei rispon­derle con una risata e invece le rispondo sem­pli­ce­mente no. Tra l’altro in un Paese in cui nes­suno legge è bello pen­sare che si possa atten­tare al governo scri­vendo dei libri.

Renzi infatti ha detto che dovete pro­muo­vere i vostri libri.

One­sta­mente l’unica grande pro­mo­zione del libro l’ha fatta lui dicendo que­sta frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affret­tati a riordinarlo.

Ma esi­ste o no que­sto piano tra lei e Letta?

No, non abbiamo nes­sun piano. Non so se Letta ha voglia di rien­trare in poli­tica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qual­che piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, fac­cio cose inte­res­santi e non ho nes­suna inten­zione di dare noia a nes­suno né di soste­nere nes­suno. Però ho il diritto di ricor­dare ed è per que­sto che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scri­verò un altro.

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22

Apr

Un accordo fra le grandi potenze è l’unica via per fermare la guerra in Libia

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Crisi libica: la soluzione nelle mani delle grandi potenze

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 aprile 2015

Abbiamo pianto per una tragedia che non ha precedenti nella pur desolante storia dell’emigrazione mediterranea. Adesso dobbiamo fare di tutto perché questa tragedia non si ripeta.

Partiamo tuttavia dal fatto che le condizioni che spingono oggi ad emigrare continueranno per lungo lungo tempo.

Esse sono il frutto della guerra e della fame, due spettri che ci accompagneranno all’infinito se non si interverrà con forza e determinazione. Le guerre infatti ci circondano (dal Medio Oriente al Corno d’Africa) mentre la fame spinge verso di noi coloro che, a sud del Sahara, cercano condizioni di vita più tollerabili. In conseguenza dell’alto tasso di natalità e della diminuzione del tasso di mortalità, le popolazioni di quei paesi raddoppieranno in meno di vent’anni. O troveranno un pezzo di pane in casa loro o lo verranno a cercare da noi: di fronte alla prospettiva della morte non vi è scelta.

L’unico rimedio a questo stato di cose è la speranza di un domani migliore per quei popoli: quanto stiamo facendo per il loro sviluppo non è certo sufficiente e non vedo nemmeno una reale volontà politica di moltiplicare il nostro impegno per il loro futuro.

In attesa di questa speranza di cambiamento bisogna almeno mettere ordine a questo esodo e impedirne le conseguenze più catastrofiche. Il che significa affrontare il problema libico, perché le partenze verso l’Europa avvengono soprattutto dalla Libia, non soltanto per la vicinanza geografica ma perché la Libia è uno stato in dissoluzione, nel quale nessun controllo e nessuna legge è ora applicabile.

Libia, Prodi le due strade maestre per combattere il terrorismo from Romano Prodi on Vimeo.

Dimentichiamoci l’intervento militare. Di guai ne ha già fatti a sufficienza la guerra del 2011 e ne farebbe ancor più un intervento militare oggi. Prima di tutto perché nessuno è disposto a mandare truppe di terra in Libia, mentre è ben noto che le guerre non si vincono con gli aeroplani o con i droni ma con gli scarponi. Ogni iniziativa bellica provocherebbe inoltre una inevitabile reazione della maggioranza del popolo libico e non servirebbe nemmeno per sconfiggere il terrorismo. Esso è diventato così mobile che, se anche fosse vinto con le armi in Libia, risorgerebbe rinforzato a sud del Sahara, nel Sinai, nel Corno d’Africa o in Siria.

Quanto all’intervento europeo ne abbiamo già visto i limiti. Una nuova politica sul l’immigrazione non è prevedibile in un vicino futuro e non può essere nemmeno ipotizzata oggi, alla vigilia delle elezioni britanniche.

I compromessi sul tavolo di Bruxelles non sono neppure in grado di raggiungere il livello di efficacia della missione Mare Nostrum, che gravava tutta sulle spalle dell’Italia. L’Unione Europea non si è infatti dimostrata disposta in passato e non è disposta oggi ad elaborare una politica per il Mediterraneo sufficientemente efficace. Si è trovata, anche con un nostro significativo sacrificio, una forte linea d’azione in favore dei paesi che prima erano nell’orbita dell’Unione Sovietica, ma i paesi del nord si sono sempre opposti a investire risorse concrete nei progetti di sviluppo dei paesi della sponda Sud del mediterraneo.

Una politica efficace per ricostruire lo stato libico è oggi possibile solo partendo dalla constatazione che tutte le grandi potenze vivono nella paura del terrorismo con cui sono costrette a confrontarsi: la Cina per gli juguri, la Russia per quello caucasico, e poi l’Europa e gli Stati Uniti per tutto quello che abbiamo vissuto.

Queste “grandi potenze”, se agiscono insieme, hanno una forza assolutamente determinante nei confronti di tutti i paesi che, a loro volta, determinano in modo diretto la politica della Libia. L’Egitto, quasi tutti i paesi del Golfo e l’Arabia Saudita sostengono il governo di Tobruk, mentre la Turchia e il Qatar appoggiano il governo di Tripoli e i miliziani di Misurata.

Gli strumenti che le grandi potenze hanno in mano per richiamare all’ordine i propri alleati sono irresistibili, così come sono irresistibili gli effetti che essi produrrebbero a cascata sulle parti in conflitto, tanto da riuscire a costringerle a trovare un accordo unitario all’interno della Libia.

Da questa catena di comando non solo dipende il flusso degli armamenti ma anche il flusso del denaro che alimenta le diverse parti in conflitto.

Questa è l’unica via per sperare di porre fine alla guerra che, mantenendo l’anarchia nel paese, rende possibile quest’infame commercio di vite umane. Ed è anche l’unico strumento per mantenere l’unità di un paese che, altrimenti, è destinato a separarsi almeno in tre parti o a esaurirsi in lotte tribali che darebbero luogo a guerre criminali senza fine.

Come dimostra la pur difficilissima trattativa sull’Iran, un accordo è sempre possibile se i comuni interessi di lungo periodo delle grandi potenze prevalgono sulle tensioni particolari e se si cerca quel “do ut des” che è condizione di ogni trattativa internazionale.

Le altre strade proposte per risolvere il problema libico non mi sembrano praticabili. Non appare proponibile l’embargo completo per un paese come la Libia che vive degli alimenti che provengono dall’estero, non solo per le sofferenze che provocherebbe alla popolazione ma anche perché esso presume un impossibile accordo con i paesi vicini. Nemmeno riesco ad avere un’idea concreta delle conseguenze di un ipotetico blocco navale, perché nessuno degli esperti che ho consultato mi ha ancora spiegato in che cosa esso consisterebbe e come esso potrebbe funzionare senza produrre tragedie umane ancora più pesanti.

Lavoriamo quindi rapidamente perché l’iniziativa europea raggiunga almeno l’efficienza che aveva l’intervento italiano di “Mare Nostrum” ma operiamo perché le grandi potenze esercitino la loro influenza sui paesi che oggi determinano il futuro della Libia. La ricostruzione delle istituzioni di questo paese conviene a tutti e non solo all’Italia che ne subisce oggi le conseguenze più pesanti.

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22

Apr

Fermare la frammentazione della Libia. Un intervento militare porterà a un disastro

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: «O intesa fra i Grandi o problema senza fine»

Intervista di Eugenio Fatigante a Romano Prodi su Avvenire del 22 aprile 2015

Davanti al dramma disperato dei migranti Romano Prodi non crede più di tanto, per le soluzioni di breve periodo, a ipotesi tipo il blocco navale o le azioni anti-scafisti quanto a «moltiplicare l’impegno europeo». Lo sguardo, però, è rivolto soprattutto all’orizzonte lungo, dove l’ex presidente della Commissione europea vede come «condizione indispensabile» un accordo mondiale sulla Libia a livello di grandi potenze, spinte dagli interessi in campo, ma anche dalle paure per i “rispettivi” terrorismi che le affliggono a casa loro. E sul punto non ha dubbi: «Lo possono fare, poche storie. Se c’è la volontà, la ricomposizione del quadro libico ci può essere. Anche rapida. Ma temo invece che ci siano pressioni per una frammentazione del Paese».

Professore, cosa pensa di questo mare di morti?

È una tragedia continua. Piangiamo giustamente quando abbiamo alcuni morti vicino a noi e non ci rendiamo conto della dimensione del problema quando le morti sono tante e incessanti e appena un po’ più lontane. Anche la classe politica commette un errore simile: si emoziona un attimo e poi non insiste per risolvere la questione nel lungo periodo.

Ci sarà mai una fine?

Non pare avere fine perché la spinta alle migrazioni è dovuta a due fattori, legati fra loro ma diversi: le guerre e la fame. Sono fenomeni che si proietteranno in futuro all’infinito, almeno fino a che non dispiegheremo un massiccio intervento politico di cui finora non vedo la volontà. Dobbiamo comprendere che la popolazione di certe regioni raddoppierà in meno di 20 anni, la spinta di questi popoli sarà sempre più forte. Me lo dicevano anche il presidente del Niger e del Mali. E i moderni mass-media rendono questi popoli ancora più consapevoli delle disparità che ci sono fra loro e l’Occidente. È un dramma italiano, ma è un problema europeo, anzi della comunità mondiale. Ricordiamo che nel mondo ci sono 2-300 milioni di persone che vivono oggi in un Paese diverso da quello da cui sono dovuti fuggire.

C’è una via d’uscita?

Bisogna gestire lo sviluppo, del Nord Africa e della fascia sub-sahariana. E impedire vicende come quella libica, dove l’esodo è accompagnato da queste immani tragedie. Le partenze avvengono ora soprattutto dalla Libia per ovvi motivi geografici, ma soprattutto perché quello è ormai uno Stato-fantasma. E per tutti diventa più facile partire da quelle coste.

Quali punti fermi possiamo fissare?

Il primo è no a ogni intervento militare. Abbiamo già visto i disastri combinati in passato, da quello in Iraq all’ultimo proprio contro Gheddafi, nel 2011. Senza contare che, se andiamo in armi lì, l’Is si può spostare da un’altra parte. Le diverse fazioni libiche saranno invece obbligate ad accordarsi fra di loro se la comunità internazionale lo vorrà.

E perché tutti dovrebbero volerlo?

Tutte le grandi potenze hanno grande influenza su quei Paesi – in qualche modo collegati all’Occidente – che a loro volta sono influenti in modo diretto sulla Libia. Sappiamo che l’Egitto, tutti i Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita sostengono il governo di Tobruk, mentre la Turchia sostiene quello di Tripoli e i miliziani di Misurata. E sappiamo anche che tutte le grandi potenze sono allarmate dal terrorismo con cui sono costrette a confrontarsi: la Cina per gli juguri, la Russia per quello caucasico, e poi l’Europa e gli Usa… Se non c’è una azione concordata e combinata fra grandi stati – che passa anche per un do ut des fra di loro -, non risolveremo mai il problema. Vuole che non abbiano loro una leva fortissima per esercitare pressione? E per farlo si possono tagliare le fonti economiche di finanziamento, e anche gli armamenti, che affluiscono in Libia. Può avvenire tramite una conferenza internazionale o la diplomazia silente. Ma bisogna riuscirci.

Il Consiglio Ue cosa potrà produrre?

Il vertice può servire per le soluzioni di breve periodo. Perché non si può lasciare sola l’Italia, con un rachitico intervento europeo che vale 1/3 di quello che l’Italia sosteneva da sola. È come un Mare nostrum molto diluito.

È stato un errore il passaggio a Triton?

Lo dicono le cose. Le cifre che ho ricordato, ma anche il fatto che Triton ha regole molto più restrittive. Nel breve si può moltiplicare l’impegno operativo di soccorso. Ma se non si affronta il problema alla radice, non si ottiene più di tanto.

L’atteggiamento Ue resta freddo, però.

Non mi sorprende. Anche ai tempi della mia Commissione, i paesi del Nord hanno sempre preso sottogamba la questione e non hanno mai voluto versare un euro quando battevo i pugni sul tavolo proponendo una politica più mediterranea, con la creazione di una Banca del Mediterraneo o di università miste.

Saranno utili le azioni contro gli scafisti?

È una questione tecnica che non ho potuto approfondire, ma mi sembra minimale rispetto alle dimensioni del problema.

C’è chi chiede il blocco navale.

Mi dicano tecnicamente che cos’è: un assalto alle coste? L’ho chiesto mille volte ai miei interlocutori, nessuno mi ha mai dato una risposta precisa, strategica e concreta. In linea teorica potrei essere anche favorevole, ma al momento mi sembra solo un’espressione verbale. Quando c’era Gheddafi era un continuo trattare, adesso il dominio è di delinquenti anonimi, manca una forza con cui trattare.

Per evitare tragedie in mare non è meglio pensare allora a un “ponte” navale?

E che facciamo, li andiamo a prendere? Diventeremmo vittima di ricattatori, che farebbero affluire sempre più gente per farli arrivare da noi.

E creare uffici di agenzie internazionali che facciano da “filtro” per gli ingressi?

In Libia è un’ipotesi non praticabile. Forse negli stati limitrofi, ma avrebbe un impatto limitato.

Torneremo mai a una Libia unica e unita?

Dico queste cose proprio temendo che ci siano forti azioni indirizzate a una frammentazione della Libia, per far emergere tensioni fra la Tripolitania, la Cirenaica e il sud desertico, per creare diverse aree d’influenza.

Intanto Regioni e Comuni denunciano di essere al limite nell’accoglienza.

Non voglio entrare in questioni politiche, ma dobbiamo sempre pensare che abbiamo a che fare con i drammi di persone deboli, molte volte con delle donne e dei bambini. Esiste un principio di solidarietà che ogni paese e regione deve avere. E deve esercitare.

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15

Apr

La commissione Italia-Africa: uno strumento fondamentale per costruire un futuro comune

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Prodi: “Fondamentale instaurare rapporti con l’Africa”
L’ex premier in Sala Tricolore con le delegazione di 25 Paesi del Vecchio continente. Il sindaco Vecchi: “Fare di Reggio Emilia un punto di riferimento permanente, rendendo la città sede di una Commissione paritetica”

Articolo su La Gazzetta di Reggio del 14 aprile 2015

REGGIO EMILIA. E’ emerso un interesse forte e condiviso, da parte delle delegazioni diplomatiche di 25 Paesi dell’Africa riunite stamattina in Sala del Tricolore, a realizzare quanto proposto dal sindaco Luca Vecchi: “Fare di Reggio Emilia – ha detto il primo cittadino – un punto di riferimento permanente dell’Africa in Italia, rendendo la città sede di una Commissione paritetica, a cui prendano parte rappresentanze del Corpo diplomatico africano in Italia, al fine di verificare periodicamente (incontri annuali o biennali, ndr) lo stato delle relazioni, a cominciare da quelle economiche e politiche, con l’Africa, con i suoi singoli Paesi e soprattutto con il continente nella sua unitarietà”.

“Per Reggio Emilia, che è una città con una forte proiezione internazionale e una spiccata attenzione al dialogo interculturale e interreligioso – ha aggiunto il sindaco Vecchi – questi incontri possono essere una rilevante opportunità di confronto, di progettazione comune e di scambio culturale, sociale e commerciale, a partire dalle competenze distintive del territorio”.

All’incontro internazionale è intervenuto il professor Romano Prodi, quale presidente della Fondazione per la collaborazione tra i Popoli, che fra l’altro ha sottolineato: “L’Africa è soggetta a una frammentazione complicata, che si traduce anche in conflittualità, al suo interno e nei rapporti con l’esterno. Una iniziativa che unisce, un lavoro collettivo come quello proposto dal sindaco, è quindi di estrema utilità, sia per l’economia, sia per la politica. Ben vengano incontri che non siano solo di conoscenza reciproca, e che coinvolgano anche gli operatori economici”. Per il presidente Prodi, è altresì importante, proprio per contribuire a superare la frammentarietà dei rapporti, che l’approccio all’Africa sia “nell’ottica di un processo di cooperazione a livello continentale, non nazionale, per poter essere più fruttuoso”.

L’incontro in Sala del Tricolore è avvenuto nell’ambito del primo incontro-visita fuori Roma del Corpo diplomatico africano in Italia: per questa iniziativa, è stata scelta Reggio Emilia, a testimonianza della particolare relazione, sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, della città emiliana con l’Africa. Una relazione ulteriormente consolidata dagli scambi internazionali generati dal Expo 2015.

I 25 Paesi rappresentati da ambasciatori e altri diplomatici, nella storica Sala civica di Reggio, erano: Algeria, Angola, Burkina Faso, Camerun, Capo Verde, Congo, Eritrea, Etiopia, Gabon, Guinea, Guinea Equatoriale, Mauritania, Mozambico, Nigeria, Somalia, Sudafrica, Sudan, Uganda, Zambia, Zimbabwe, Costa d’Avorio, Kenya, Liberia, Sud Sudan e Marocco.

Al seminario, insieme con l’assessore alla Città internazionale del Comune di Reggio Emilia Serena Foracchia, erano presenti Stefano Landi presidente della Camera di commercio di Reggio Emilia, il decano del Corpo diplomatico africano in Italia Kamara Dekamo Mamadou, Raffaele De Lutio del ministero per gli Affari esteri italiano, Paolo Sannella presidente del Centro di relazioni con l’Africa e portavoce del progetto Reggio chiama Africa, Franco Mazza presidente della Fondazione solidarietà reggiana. Nel pomeriggio, dopo la visita al Centro internazionale dell’infanzia Loris Malaguzzi con la presidente dell’Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia Claudia Giudici, le delegazioni africane hanno visitato il Tecnopolo di Reggio Emilia, dove sono stati loro presentati il progetto Reggio Emilia per Expo 2015 e le opportunità che il territorio offre nei settori Agricoltura, Alimentazione e Ambiente da parte dello stesso assessore Foracchia, da Sergio Ferrari prorettore dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, Aimone Storchi per la fondazione Reggio Emilia Innovazione, Giuseppe Veneri presidente di Crpa e alcuni rappresentanti del mondo economico.

L’INTERVENTO DI ROMANO PRODI. “Se è ancora azzardato parlare di un rinascimento dell’Africa, perché la povertà è ancora dominante, è però evidente un nuovo fermento nel continente africano, da una decina d’anni a questa parte”, ha detto Romano Prodi, che ha approfondito le diverse tematiche del continente africano, fra l’altro quale presidente del Gruppo di lavoro Onu-Unione africana sulle missioni di peacekeeping in Africa.

“Anche se siamo ancora agli inizi, in Africa siamo di fronte a una ripresa economica significativa e inaspettata, che sta dando energia al continente e sulla quale dobbiamo investire – ha proseguito Prodi – A oggi la situazione interna è ancora frammentata e l’unità africana è un esito ancor lento da perseguire, sia nei rapporti politici che in quelli economici. L’idea di avere insieme qui riuniti gli ambasciatori di tanti Paesi africani, in un momento in cui si fa il punto sui rapporti tra il nostro Paese e l’Africa, e si radunano imprenditori interessati ad investire nel continente, è a mio avviso di estrema utilità per i nostri rapporti sia politici che economici. Ritengo che l’idea di creare un punto di riferimento, che non sia a livello di singolo Paese, ma guardi a un’ottica più globale sull’Africa, è estremamente utile e importante. Questo lavoro collettivo può rappresentare uno strumento fondamentale per costruire un futuro comune ed è utile per il dialogo, elemento sempre più importante”, anche in tema anche di immigrazione e di contrasto al terrorismo.

 

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12

Apr

Il terrorismo si sconfigge con una grande alleanza che ne secchi le radici

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

Il terrorismo si può battere solo chiudendo i rubinetti

Articolo di Romno Prodi su Il Messaggero del 12 aprile 2015

Da ormai troppi anni il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente sono teatro di tensioni senza fine. L’eterno conflitto afghano, la guerra fra Iran ed Iraq, l’incomprensibile massacro fra Etiopia ed Eritrea, la guerra irachena e, infine, la tragedia libica hanno causato milioni di morti e immani sofferenze umane. A questi eventi bellici si sono aggiunte guerre civili interne e, infine, crescenti episodi di terrorismo, spinti sempre di più da fanatismi di carattere religioso che, negli ultimi tempi, si sono particolarmente indirizzati nei confronti dei cristiani. Essi, privi di ogni speranza, stanno abbandonando il Medio Oriente, comprese le regioni che sono state per secoli la culla del Cristianesimo, come l’Iraq e la Siria.

Negli ultimi anni il terrorismo ha talmente allargato la propria sfera di azione che, da New York a Parigi, dal Kenya alla Tunisia nessuno si sente al sicuro.

Il terrorismo ha iniziato a costruire strutture statuali, con un proprio territorio e proprie istituzioni. In modo compiuto tra la Siria e l’Iraq, con un processo in divenire in Libia, nel Sahel, in Nigeria e nel Sinai.

Di fronte a questa offensiva si allarga ogni giorno il dibattito sulla possibilità di intervento contro un nemico così mobile, così onnipresente e così capace di attrarre nuovi proseliti non solo nei paesi islamici ma anche nella seconda e terza generazione di emigrati in Europa e negli Stati Uniti.

Da più parti sono emerse proposte in favore di un’opzione militare. Un’opzione che non può essere certo scartata a priori ma che, dall’intervento in Iraq alla guerra di Libia, è solo servita a moltiplicare le sofferenze e a rendere sempre più difficili le soluzioni possibili. Il nuovo terrorismo, inoltre, essendo più mobile e diversificato, rende ancora più difficile l’intervento militare. Non sarebbe certo un risultato confortante inviare truppe in Siria col risultato di vedere l’Isis intensificare la propria presenza in Libia o in Nigeria.

Il terrorismo può essere vinto solo seccandone le radici che ora lo nutrono con gli introiti della vendita di petrolio e di materie prime, con il commercio della droga, col traffico degli esseri umani e con risorse provenienti da organizzazioni protette da governi che usano il terrorismo come uno strumento di politica interna. Le offensive portate avanti dai terroristi con armi ultramoderne montate su centinaia di vetture spesso nuove di zecca richiedono infatti mezzi finanziari poderosi.

Bisogna inoltre aggiungere che non solo quella che viene definita l’imbelle opinione pubblica europea ma anche l’assoluta maggioranza degli americani non è più disposta a sacrificare uomini in azioni militari sanguinose e con risultati sempre meno efficaci. Quando si arriva alla decisione finale i governi inviano droni, aerei da bombardamento o, al massimo, istruttori militari, pur sapendo che le guerre non si vincono con gli aeroplani ma solo con gli scarponi. Chi propende per l’opzione bellica deve anche chiedersi se è possibile fare la guerra dappertutto, in cento fronti e in cento contesti diversi.

Dobbiamo quindi rassegnarci ad essere sconfitti dal terrorismo? Penso proprio di no perché mai come oggi si è aperta una finestra politica che permette di soffocarlo.

Ci troviamo infatti di fronte ad una situazione assolutamente senza precedenti, perché tutte la grandi potenze vivono oggi nella paura del terrorismo proprio perché esso è così ramificato da costituire un pericolo per tutti.

La Cina vive nell’incubo degli oltre venti milioni di islamici che risiedono al suo interno. La Russia è in perpetuo allarme per il terrorismo caucasico e l’Europa e gli Stati Uniti si sentono disarmati di fronte a questo nemico senza volto.

Anche se assai complicata da mettere in atto, nulla è più ragionevole e più potenzialmente efficace di un’azione comune delle grandi potenze nei confronti di tutti i paesi con i quali esse hanno legami, affinché questi paesi si impegnino per fare mancare ai terroristi gli introiti che alimentano la loro forza.

È possibile un accordo di questo genere? Da un lato saremmo propensi a rispondere di no perché le tensioni fra Stati Uniti e Russia non fanno altro che accentuarsi, l’Europa non sembra avere la forza sufficiente per agire come arbitro e la Cina lavora per conto suo, affermandosi sempre di più nello scacchiere asiatico e costruendo una sempre più forte presenza finanziaria, economica e militare nel mondo.

Siamo tuttavia di fronte ad un fatto nuovo: la trattativa fra tutte le grandi potenze e l’Iran. Abbiamo ancora qualche settimana di attesa per vedere se la trattativa andrà in porto, ma è certo che quanto i cinque membri del consiglio di sicurezza ( più la Germania) stanno concludendo con l’Iran non riguarda soltanto il problema nucleare ma anche il reinserimento nel gioco politico globale di un paese che è perno degli equilibri medio orientali.

Quest’accordo riguardante uno scacchiere così delicato renderà più facile l’adozione di una politica comune nei confronti del terrorismo da parte di tutte le grandi potenze. Esse potranno quindi premere su Siria, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e su tutti i paesi nei confronti dei quali esercitano una forte e non resistibile influenza affinché questi paesi facciano mancare ai terroristi le risorse di cui hanno bisogno per esercitare il loro potere.

Per dare corpo ad un’azione comune non è necessario un accordo globale e generale: basta che le grandi potenze diano ascolto al sentimento di paura dei loro popoli, un sentimento che, nelle grandi democrazie, si esprime nel momento del voto, ma che è altrettanto presente nei paesi gestiti in modo autoritario.

Il terrorismo prospera infatti sfruttando le infinite contraddizioni che le grandi potenze permettono o addirittura coltivano nelle politiche locali dei paesi amici. In queste contraddizioni il terrorismo trova uno spazio crescente, fino a farsi Stato.

L’opzione bellica non sarà mai in grado di sfruttare in modo positivo la paura di tutti. Solo un accordo comune potrà battere il terrorismo.

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29

Mar

Cinque obiettivi (più uno) per nutrire il Pianeta

Inserito da rr  - Pubblicato in Riflessioni sul Mondo

La sicurezza alimentare non può attendere

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 29 marzo 2015

Come nutrire il pianeta: questo sarà il filo conduttore dell’Expo che si aprirà fra un mese a Milano. Non è quindi tempo perso cercare di capire come stanno le cose oggi e come cambieranno domani.

La prima domanda è se tutti si nutrono a sufficienza: la risposta è no. Più di ottocento milioni di persone, cioè oltre l’11% degli abitanti del pianeta, soffrono la fame. Gli obiettivi che i grandi della terra si erano proposti in passato non sono stati raggiunti, anche se alcuni paesi come il Brasile, l’Indonesia e la Bolivia hanno fatto grandi progressi in materia.

La produzione agricola deve quindi aumentare per dare il pane a tutti, ma deve anche aumentare per fare fronte ai mutamenti delle diete alimentari che accompagnano lo sviluppo economico. Il passaggio alle proteine cambia il mondo: una persona che si nutrisse solo di carne avrebbe bisogno di cinque volte la superficie agricola necessaria a nutrire una persona che vive esclusivamente di cereali.

Lo sviluppo rivoluziona la dieta: in Cina il consumo pro-capite di carne, che era di 20 kg. all’anno nel 1980, è arrivato a 54 kg. nel 2010 e continua a crescere.

Così avviene per i miliardi di persone che non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di benessere.

Tutti gli esperti concordano nel prevedere che, se non vi saranno drastici cambiamenti, la produzione di cibo non sarà in grado di seguire l’aumento della domanda perché la produttività cresce meno che in passato, perché i risultati più alla portata di mano sono stati già raggiunti mettendo a coltura le terre più fertili, perché gli investimenti nella ricerca in campo agricolo sono nettamente inferiori rispetto alle necessità e, infine, perché il grande processo di urbanizzazione priva l’agricoltura delle terre più fertili. Basta pensare che, prima della metà di questo secolo, il 70% dell’umanità vivrà nelle città. A questo si aggiunge il fatto che una crescente quantità di terreno fertile, in conseguenza di improvvidi sussidi pubblici, non viene dedicata alla produzione di cibo ma di biocarburanti. Non si tratta di sciocchezze perché il 40% della produzione di mais degli Stati Uniti, utilizzando una superficie agraria più grande di molti stati europei, non viene impiegata per riempire le bocche delle persone o degli animali ma finisce nei serbatoi delle automobili. Fa un certo effetto pensare che la quantità di cereali necessaria per produrre carburante per un solo rifornimento di un Suv (240kg di cereale) sarebbe sufficiente per nutrire un essere umano per un anno intero.

Negli ultimi due anni questo problema è meno sentito perché abbiamo avuto raccolti eccezionalmente buoni e perché la crisi economica ha compresso la domanda in molti paesi ma, dall’inizio del secolo, abbiamo già avuto due lunghi periodi di estrema scarsità di cibo, con improvvisi aumenti di prezzo delle derrate alimentari che hanno provocato tragiche conseguenze nei paesi più poveri e che, non solo nel periodo della primavera araba, hanno anche prodotto violente rivolte popolari.

In questo quadro di precarietà sul futuro, la sicurezza e la stabilità degli approvvigionamenti alimentari sono diventate obiettivi fondamentali non solo da parte dei paesi come la Cina e l’India ma anche di Corea e Arabia Saudita e di tutti i paesi che hanno scarsità di terra coltivabile rispetto al numero di abitanti.

Da qui nasce la politica di acquisti di terra negli unici due continenti dove sono ancora disponibili vaste superfici non coltivate, cioè in Africa e in America Latina.

A questa politica, che sta già causando tensioni e molte altre ne causerà in futuro, si aggiunge il fatto che il commercio mondiale delle derrate non è più in mano agli Stati Uniti e all’Europa ma a nuovi protagonisti come la Cina, India, Indonesia, Brasile, Canada e Australia.

Il grande magazzino delle scorte agricole mondiali non è oggi nelle pianure americane ma in Cina, nei cui silos, nel 2013, era depositato il 30% delle scorte mondiali di grano, il 40% del mais e il 42% del riso.

Conviene anche sapere che il maggiore esportatore di soia brasiliana è cinese e che oltre un terzo della produzione suinicola degli Usa è di proprietà cinese.

In questo quadro, nel quale la sicurezza alimentare è così importante, l’Italia deve porsi obiettivi precisi e rigorosi, anche se il suo rapporto fra popolazione e risorse agricole non è paragonabile a quello dell’India o della Cina e l’appartenenza all’Europa costituisce una potente garanzia.

  • Il primo obiettivo deve essere quello di sprecare meno: un terzo dei prodotti alimentari non entra nella nostra bocca ma va disperso o sprecato e finisce direttamente nei bidoni delle immondizie.
  • In secondo luogo bisogna produrre di più sporcando meno: in molte regioni del mondo l’agricoltura è responsabile di una grande parte dell’inquinamento delle falde acquifere.
  • Il terzo comandamento ci dice che dobbiamo produrre di più usando meno acqua: utilizzando sistemi di irrigazione più efficienti e varietà di sementi che resistono alla siccità e agli stress idrici.
  • Il quarto obiettivo deve essere quello di usare la terra più fertile per produrre cibo, lasciando all’energia gli scarti di produzione, i terreni marginali e i boschi cedui.
  • Per raggiungere l’obiettivo della sicurezza alimentare abbiamo però bisogno di un rafforzamento delle aziende agricole e, soprattutto, di moltiplicare le scarse risorse dedicate alla ricerca agraria nelle nostre università e nei nostri Istituti sperimentali. Vantiamo un passato glorioso nella ricerca scientifica in agricoltura. Le innovazioni nella genetica sono state una gloria del nostro paese: a Bologna per il grano, a Palermo per gli agrumi, nel nord-est per la vite e la frutta. La nuova ricerca genetica non passa più da noi: è ora di mettere seriamente in agenda questo problema.
  • Resta infine un’ultima raccomandazione: non rubiamo mai più un metro quadrato di terreno all’agricoltura. Abbiamo già devastato abbastanza il suolo italico. Abbiamo infinite zone già urbanizzate e completamente inutilizzate. La crisi le ha moltiplicate e qualsiasi auspicabile ripresa non avrà bisogno di quella terra. Lasciamola all’agricoltura. Dedichiamola al nostro futuro.

Expo 2015 – Intervento di Romano Prodi – La geopolitica del cibo from Romano Prodi on Vimeo.

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